La “Spe Salvi facti sumus” – “Nella speranza siamo stati salvati” – è la seconda enciclica di papa Benedetto XVI, pubblicata nel suo terzo anno di pontificato, il 30 novembre 2007, ricorrenza di Sant’Andrea Apostolo.
L’enciclica è suddivisa in 50 paragrafi, numerati all’interno di otto capitoli generali, nei quali il Pontefice spiega che cos’è la «speranza cristiana» e come essa possa salvarci. La breve Introduzione mostra con efficacia, da subito, l’importanza decisiva della speranza nella vita umana, idea che sarà poi ribadita più volte nel documento. Infatti, per poter affrontare il presente con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà, abbiamo assolutamente bisogno di una speranza valida e ferma. Nel testo magisteriale, Benedetto XVI precisa la vera natura della speranza: essa è alimentata dalla fede nel Dio amore e, proprio in ragione di questa origine, non è mai individualistica, ma sempre aperta al prossimo; infatti l’essere cristiani scaturisce direttamente dallo stare in comunione con Gesù Cristo.
Papa Benedetto nel primo capitolo indica come esempio vivente di speranza, intesa come virtù performativa, capace di “produrre fatti e cambiare la vita”, santa Giuseppina Bakhita, una donna che aveva conosciuto la schiavitù, la violenza, la povertà, l’umiliazione. Dopo l’incontro con Gesù, ha visto rinascere la speranza che poi ha trasmesso agli altri come realtà viva: “La speranza, che era nata per lei e l’aveva ‘redenta’, non poteva tenerla per sé, ma doveva raggiungere molti, raggiungere tutti”.
Benedetto XVI prende spunto da un passo della Lettera ai Romani in cui S. Paolo parla di salvezza nella speranza (Rm 8,24), per sviluppare la sua riflessione sulla fisionomia della speranza cristiana, sottolineando innanzitutto la sua stretta connessione con la fede. Essa, infatti, consiste nella conoscenza di Dio e nella scoperta del suo cuore di Padre buono e misericordioso. “Gesù, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha rivelato il suo volto, il volto di un Dio talmente grande nell’amore da comunicarci una speranza incrollabile, che nemmeno la morte può incrinare, perché la vita di chi si affida a questo Padre si apre sulla prospettiva dell’eterna beatitudine” (Papa Benedetto XVI nell’Angelus del 2 dicembre 2007). Poiché Gesù ha vinto la morte, Dio ci ha aperto le porte alla speranza, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro faticoso presente, certi della Meta gloriosa che ci attende.
Viene poi considerata attentamente “la testimonianza della Bibbia sulla speranza”. “Speranza” “è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole fede e speranza sembrano interscambiabili”. Effettivamente, la fede cristiana non è accettare un certo numero di verità astratte, ma consiste nel dare la propria adesione alla persona di Cristo, per essere da Lui salvati e introdotti nella comunione divina. La vera speranza ci viene data dall’incontro personale con il Dio vivo e vero per mezzo di Gesù. Agli inizi del cristianesimo essa veniva espressa e testimoniata perfino sui sarcofaghi nel modo di rappresentarvi Cristo come il vero filosofo che guida alla vita eterna e come il buon pastore.
Come si legge nel Salmo 23 – “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla… Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me…” – il “buon pastore” è Colui che conosce la via che passa per la valle della morte. Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte e l’ha vinta per noi e per questo può essere sorgente della nostra speranza.
Il capitolo prosegue con l’esplicazione delle diverse traduzioni e interpretazioni date da san Tommaso d’Aquino e Lutero della definizione di fede esposta nell’undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei «La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova (elenchos) delle cose che non si vedono». San Tommaso dà alle parole hypostasis ed elenchos rispettivamente il significato di “sostanza” e di “prova”, il secondo il significato soggettivo di “convinzione”. Per il Pontefice, la speranza cristiana è senz’altro una disposizione dell’animo, ma non soltanto; è qualcosa di sostanziale, perché reca già in sé un germe del futuro che ci attende, della vita eterna e beata, sostenendo così in modo reale la vita presente.
Le conferme migliori del carattere sostanziale della speranza cristiana ci sono date dalle testimonianze dei santi: le prove cui sono stati sottoposti i martiri, le grandi rinunce dei monaci sin dell’antichità, lo stile di vita di san Francesco d’Assisi… A tal riguardo, Benedetto XVI annota: “Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una prova che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza”.
L’Enciclica poi sviluppa un altro passo della Lettera agli Ebrei (10,34), dove si esprime un contrasto tra due basi per la vita umana: una materiale, che assicura il sostentamento dell’esistenza, e l’altra fornita dalla fede, in rapporto con la speranza. Il Papa si chiede quanto oggi sia diffuso e reale tra i cristiani il desiderio della vita eterna, oppure se sia rivolto solo abeni effimeri e passeggeri come il successo e il denaro. La scienza moderna ha contribuito in gran parte in uno spostamento delle attese umane dalla Realtà celeste a quella intramondana, come se i beni di questo mondo bastassero da soli a rispondere alle attese più profonde del cuore umano. La scienza, riconosce Papa Benedetto, contribuisce molto al bene dell’umanità,ma non è in grado di redimerla. L’uomo – precisa papa Ratzinger – “viene redento dall’amore”, che rende buona e bella la vita personale e sociale. “Per questo la grande speranza, quella piena e definitiva, è garantita da Dio, dal Dio che è l’amore che in Gesù ci ha visitati e ci ha donato la vita, e in Lui tornerà alla fine dei tempi”.Solo chi viene toccato dall’Amore comincia a intuire cosa sia la vita eterna di cui parla il Vangelo.
La seconda grande parte dell’Enciclica descrive i “luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza” e riguarda quindi, in modo più concreto, la vita cristiana. Vengono distinti tre luoghi:
La preghiera come scuola della speranza.
L’agire e il soffrire come luoghi di apprendimento della speranza.
Il Giudizio [con la g maiuscola] come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza.
Le analisi offerte sono di una ricchezza e di una profondità stupende.
In primo luogo, l’Enciclica prende spunto da un’omelia di S. Agostino sulla Prima Lettera di Giovanni che illustra “l’intima relazione tra preghiera e speranza“, definendo “la preghiera come esercizio del desiderio“, esercizio necessario perché il nostro cuore “è troppo stretto per la grande realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato”. “Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini.” Per raggiungere questo scopo, la preghiera “deve essere sempre di nuovo guidata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna a pregare nel modo giusto”. “Così diventiamo capaci della grande speranza” e anche “ministri della speranza per gli altri: la speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri“.
Un altro luogo dove si esercita la speranza è l’azione, perché la speranza cristiana non è oziosa, ma spinge ad agire. “Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto”. La speranza cristiana sostiene l’impegno quotidiano e dà il coraggio di proseguire nel cammino perfino quando, umanamente parlando, “non ho più niente da sperare”.
La sofferenza, poi, è il luogo privilegiato dove si esercita la speranza cristiana, perché “non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore” e le cui sofferenze sono diventate, per questo motivo, sorgente inesauribile di grazie.
Infine, l’Enciclica presenta il Giudizio finale di Dio come “luogo di apprendimento e di esercizio della speranza” in un senso evidentemente diverso dai precedenti, perché il Giudizio finale non è una realtà presente come sono le preghiere e le sofferenze. Dio verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti; solo allora si manifesterà la vera giustizia. Questa certezza che Dio “ritornerà” nella gloria è un motivo per noi di grande speranza perché segna la sconfitta definitiva del male. Tuttavia, a volte la venuta di Dio è stata vista come una minaccia. Certamente può essere percepita in questo modo dal peccatore non pentito, da colui che ha la “coscienza sporca”. Mentre l’ateismo nega tale “ritorno” e attribuisce a Dio la responsabilità delle ingiustizie, per il cristiano è proprio il ritorno di Cristo che segnerà il pieno compimento della Giustizia divina in rapporto a tutte le ingiustizie della storia.
Concludendo il Papa offre alcune preziose riflessioni sull’inferno, sul purgatorio e sulla preghiera per i defunti.
L’Enciclica termina con una contemplazione di “Maria, stella della speranza” Ave maris stella: Maria è stella del mare, luce per i naviganti nel mare della vita. La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro di burrasca, un viaggio in cui vi sono nondimeno degli “astri” che ci indicano la rotta da seguire. Quale persona potrebbe meglio di Maria Santissima essere per noi stella di speranza? lei che con il suo “sì” aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventò la vivente arca dell’alleanza, in cui Dio, divenne uno di noi e piantò la sua tenda in mezzo a noi; lei che, “anche nel buio del Sabato Santo” andò incontro al mattino di Pasqua custodendo nel cuore la “certezza della speranza”.