COMMENTO ALLA PAROLA DEL GIORNO

"Lampada per i miei passi
è la tua Parola,
luce sul mio cammino"

Salmo 119,105

3 agosto 2021 – Martedì della XVIII settimana del Tempo Ordinario – Anno dispari

La Lebbra della comunità

La contestazione radicale dell’autorità che Dio ha costituito è un peccato che ha un carattere mortale e contagioso perché si diffonde all’interno della comunità, creando inevitabilmente diffidenza, conflitti e divisioni.

don Francesco Pedrazzi

Nm 12, 1-13; Sal.50; Mt 15,1-2.10-14

La prima lettura di oggi ci presenta una contestazione dell’autorità di Mosè da parte dei due fratelli Maria e Aronne.

Si legge: «[Maria e Aronne] dissero: “Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?”. Il Signore udì. Ora Mosè era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra. Il Signore disse a un tratto a Mosè, ad Aronne e a Maria: “…Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?”. L’ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò; la nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa, bianca come la neve. Aronne si volse verso Maria ed ecco: era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: “Ti prego, mio signore, non addossarci il peccato che abbiamo stoltamente commesso! Ella non sia come il bambino nato morto, la cui carne è già mezzo consumata quando esce dal seno della madre”. Mosè gridò al Signore dicendo: “Dio, ti prego, guariscila!”».

Questo episodio ci fa capire quanto sia in abominio a Dio la critica delle autorità che egli ha costituito. Va precisato che non ogni critica all’autorità è un peccato contro Dio. Se essa è espressa nella forma di un consiglio o di un’umile esortazione può essere anche un contributo prezioso nell’esercizio dell’autorità. Ad esempio, Ietro, suocero di Mosè, gli aveva mosso una critica costruttiva sul modo con cui esercitava l’autorità sul popolo e gli aveva suggerito di condividerla con altre persone che potessero aiutarlo. Mosè accettò il consiglio, che era perciò conforme al volere divino.

Ma la critica di Maria e Aronne è radicale: parte da un pretesto banale, il fatto che Mosè aveva sposato una donna etiope, per contestare il fatto stesso che Dio parlasse attraverso di lui!

La lebbra che colpisce Maria in questo caso simboleggia il carattere mortale e contagioso di questo peccato, perché la contestazione dell’autorità si diffonde all’interno della comunità, creando inevitabilmente diffidenza, conflitti e divisioni.

La pianta di rosa viene coltivata presso i vigneti perché presenta in maniera prematura, rispetto alla vite, molti dei sintomi capaci di danneggiare il raccolto, a causa dei parassiti. Similmente, quando in una comunità di credenti viene contestata in modo radicale l’autorità, è un segnale che il nemico vuole aggredire e distruggere l’intera comunità. Bisogna, perciò, opporsi fermamente a queste critiche, per salvare il corpo ecclesiale!

Nel vangelo si racconta che portarono a Gesù «tutti i malati e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccarono furono guariti».

Tocchiamo anche noi il Cuore di Gesù con una supplica umile e accorata per tutte le volte in cui abbiamo provocato l’ira del Signore contestando i pastori che egli ha costituito, perché ci guarisca dalla lebbra che c’è nelle nostre anime.

Preghiamo con il Salmo odierno: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo!». Amen.

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ARCHIVIO 2021 | COMMENTO ALLA PAROLA DEL GIORNO
Dall'VIII settimana del Tempo Ordinario (dispari)
Don Francesco Pedrazzi

Sir 35,1-15, Sal 49 (50), Mc 10,28-31

Questa settimana troviamo nella prima lettura il Libro del Siracide. È un libro sapienziale, cioè che ci offre consigli preziosi e concreti perché possiamo piacere a Dio anche nelle azioni ordinarie che compiamo ogni giorno.

Nel testo di oggi troviamo queste parole: «Chi adempie i comandamenti offre un sacrificio che salva…. Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità…». E poi: «Glorifica il Signore con occhio contento… In ogni offerta mostra lieto il tuo volto… Da’ all’Altissimo secondo il dono da lui ricevuto».

Vogliamo che la nostra giornata sia gradita a Dio? Due sono le cose che non dovrebbero mancare:
1) Cerchiamo di camminare nell’obbedienza perfetta alla sua volontà, osservando i comandamenti che ci raggiungono attraverso la Bibbia e obbedendo ai Pastori della Chiesa che Dio stesso ha costituito. Se non mettiamo al di sopra di tutto la sua Divina Volontà il nostro sacrificio è “ingiusto” e il Siracide ammonisce: “Non confidare in un sacrificio ingiusto, perché il Signore è giudice“. In altre parole, Dio non può gradire la nostra preghiera se non camminiamo nell’obbedienza.
2) Fare ogni cosa “con occhio contento”, perché ogni cosa va fatta per amore, per gratitudine, con gioia, con cuore di figli, non di schiavi.

Come ci ricorda il Vangelo di oggi, il discepolo di Gesù è uno che è disposto a perdere tutto per Gesù, perché sa che in cambio avrà il centuplo quaggiù e la vita eterna, insieme a inevitabili persecuzioni.
Fratelli e sorelle, non dimentichiamolo: un vero cristiano è uno che obbedisce a Dio con l’occhio contento e che sa che non ha nulla da perdere in questa vita perché ha trovato Gesù, la perla preziosa, nella quale c’è ogni altro dono, e per la quale è disposto a “perdere” tutto il resto! (cf. 1Sam 15,22; Mt 13,46).

don Francesco Pedrazzi

 

Sir 36,1-2a.5-6.13-19 NV [gr. 36,1-2.5-6.13-19]

Sal 78 (79)
Mc 10,32-45

«Signore, mostraci la luce della tua misericordia, infondi il tuo timore su tutte le nazioni!».
Nella prima lettura di oggi troviamo queste parole del Siracide. Si parla sia della luce della “misericordia” di Dio sia del “timore” del Signore. Sembrano due cose incompatibili. Ma non è così. La vera fiducia nella Misericordia di Dio è sempre accompagnata dal timore del Signore.

Sono come due ali, con le quali possiamo volare verso l’alto. Non si può volare con una sola ala! Non possiamo volare solo con l’ala della misericordia, se manca il timore del Signore; viceversa è impossibile volare in Cielo se temiamo Dio, ma non confidiamo nella sua misericordia.

 

Manca il timore del Signore quando pensiamo: «Tanto Dio è buono e misericordioso e mi perdona sempre, quindi faccio ciò che mi pare!». Infatti, il timore del Signore è un profondo senso di rispetto per grandezza e la santità di Dio e un sincero odio per il peccato.
Manca la fiducia nella divina Misericordia quando pensiamo: «Non è possibile che Dio ami veramente un peccatore come me!».
Il timore e la misericordia sono uniti quando pensiamo: «Dio è tanto buono e sempre pronto a perdonarmi, ma – come scrive san Paolo – «non ci si può prendere gioco di Dio!» (Gal 6,7|‘74) e pertanto farò di tutto per camminare secondo la sua volontà.
Non posso approfittare della sua bontà per vivere come voglio! Al contrario, la sua bontà immensa mi spinge ogni giorno a lottare contro il peccato per piacere al Signore in ogni cosa, mentre il santo timore mi ricorda che Dio è colui che regge l’universo, che «scruta l’abisso e i cuori, e penetra tutti i loro segreti» (Sir 42,18), e darà a ciascuno secondo le proprie opere (cf. Ap 2,23).

San Filippo Neri, il santo di oggi, nelle sue catechesi metteva spesso in relazione i sette doni dello Spirito Santo con i sette vizi capitali. Ricordiamo che il timore del Signore è un dono dello Spirito Santo.
Si legge nel Libro biblico dei Proverbi: «Il timore del Signore è odiare il male e io detesto la superbia!» (Pr 8,13). Il timore del Signore ci aiuta a combattere il primo dei sette peccati capitali: la superbia, che non ha risparmiato nemmeno gli Apostoli, come ci riporta il vangelo di oggi. Un rimedio formidabile alla superbia è imprimere nel cuore le parole di Gesù: «Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,44). 

don Francesco Pedrazzi

Sir 42,15-26 (NV); Sal 32; Mc 10,46-52

Il Libro del Siracide è attraversato da un profondo senso di stupore e di ammirazione per la grandezza di Dio, che risplende nelle opere del creato. «Quanto sono amabili tutte le sue opere! E appena una scintilla se ne può osservare», si legge nella prima lettura di oggi. Sin dalle origini, il senso dell’eterno e dell’infinito scaturisce nel cuore umano dinanzi alla strabiliante armonia dell’universo e alle leggi che lo reggono.

Stiamo entrando nella stagione in cui si rinnova il “miracolo” della natura che esplode di colori, luci, profumi e canti. Sarebbe bello lasciarsi stupire – come ci accadeva da bambini – dinanzi a un prato fiorito, al canto melodioso degli uccelli, alla leggiadria di una farfalla, alla maestosità delle montagne, al fascino misterioso di un cielo stellato… e pensare che tutto questo non è che una scintilla di ciò che possiamo osservare della gloria e della grandezza di Dio!

È motivo di stupore anche il pensiero che Dio conosce i segreti più intimi del nostro cuore. Il Siracide, infatti, proclama: «Il Signore scruta l’abisso e il cuore, e penetra tutti i loro segreti. … Nessun pensiero gli sfugge, neppure una parola gli è nascosta».
E sant’Agostino nelle sue Confessioni scriveva: «Tu, mio Dio, sei più intimo a me di me stesso» (cf.III,6).

Ma se Dio davvero conosce tutto di noi, perché è necessario che lo invochiamo per ottenere il suo aiuto? Perché dinanzi a un cieco, nel vangelo di oggi, Gesù chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

Perché come gli stami di un fiore non possono ricevere la luce del sole se i petali non si aprono, così la grazia di Dio non può raggiungerci se il nostro cuore non si apre tramite il “grido” della preghiera. «Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra» – dice il Siracide – e la Grazia sta di fronte al desiderio umano, alla nostra libertà.

Il Vangelo di oggi ci fa capire, infatti, che la preghiera è un “grido” che sale da un cuore assetato di luce. E la preghiera del cieco Bartimeo dice l’essenza stessa della preghiera cristiana. Infatti, è detta “la preghiera di Gesù” in quell’opera stupenda che è I racconti di un pellegrino russo.

Se ci sembra di non riuscire a pregare, di non sapere pregare, ma abbiamo nel cuore la certezza di dover pregare per ricevere da Dio ciò che Egli desidera donarci (e di cui abbiamo assolutamente bisogno!), ecco le parole che in ogni momento possiamo ripetere. In queste parole c’è tutto! Il nome che da solo è già una preghiera – «Gesù!» –  e il grido che dice la fiducia nella Divina misericordia: «Kyrie eleison!» (che ripetiamo all’inizio di ogni Messa). La preghiera di Bartimeo divenga la nostra “preghiera del cuore”: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!».

don Francesco Pedrazzi

 

Sir 44,1.9-13; Sal 149; Mc 11,11-25

Il Siracide proclama la gloria di Dio – cioè la sua bellezza, grandezza, bontà – che risplende ovunque nel mondo, in tutte le sue opere. L’opera che più di tutte le altre può irradiare la gloria del Creatore è l’uomo. Ma non tutti gli uomini. Quelli che il Siracide chiama “gli uomini illustri”. Il brano di oggi inizia con le parole: «Facciamo ora l’elogio di uomini illustri, dei padri nostri nelle loro generazioni». Qui si apre una sezione del libro in cui viene fatto l’elogio di tutti i “giusti” dell’Antico Testamento, da Enoc ad Abramo, da Mosè a Samuele e molti altri.
Interessante questo aggettivo “illustri”, dal latino “lustrum”, “luce”, e quindi, letteralmente: “uomini luminosi”, “splendenti”, che danno luce. Il termine ricalca la versione greca, dove troviamo un aggettivo che contiene la parola “gloria” (doxa): uomini “gloriosi”, che irradiano la gloria di Dio, la sua luce (cf. Mt 5,16).

Chi sono per l’autore del Siracide gli uomini luminosi e gloriosi? «Quelli che temono il Signore cercano di piacergli, quelli che lo amano si saziano della legge» (2,16).
È quindi l’intenzione del cuore che cerca di piacere a Dio in ogni cosa che rende l’uomo “illustre”, “luminoso”.

Vale la pena di riflettere su questo punto: quando cerchiamo con sincerità di cuore di piacere a Dio diventiamo come specchi che riflettono la sua luce e la sua bellezza!

Viceversa, il vangelo di oggi ci mette in guardia dalla falsa religiosità di chi cura solo l’apparenza, l’esteriorità, perché cerca di piacere agli uomini, senza esaminare il proprio cuore davanti a Dio. Per comprendere il significato del fico sterile, pensiamo a quel noto proverbio italiano: «Tanto fumo e niente arrosto!». Qui si potrebbe dire :«Tante foglie e niente frutti!». Infatti, il fico ha delle foglie belle e grandi e visto da lontano è difficile capire se vi siano dei frutti. Ma Dio ci vede “da vicino”: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7). Nel brano di oggi si legge: «Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, Gesù si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie».

Le foglie simboleggiano la vanagloria dei capi dei sacerdoti e degli scribi, che fanno tutto «per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange» (cf. Mt 23,5), si vantano per l’imponenza del loro tempio, per la solennità dei riti e per gli arredi sacri, ma – davanti a Dio –  sono «sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», perché non cercano la gloria di Dio, ma la propria gloria (Mt 23,27). Dal momento che questo fico non ha frutti da offrire al Figlio di Dio, rimarrà per sempre sterile: nemmeno gli uomini mangeranno dei suoi frutti. A differenza degli alberi da frutto, siamo invitati a cercare di piacere a Dio in ogni stagione,  non solo nella “bella stagione” (anche in quelle “invernali”!);. Una delle cose più pericolose della vita spirituale è il pensare che ci sarà un tempo migliore “domani” per convertirci. Chi attende domani per convertirsi, non si convertirà mai.

Correlato, nel suo significato simbolico, all’episodio del fico sterile, è il gesto profetico della purificazione del tempio e della cacciata dei mercanti. Gesù lo compie non certo per giustificare l’irascibilità umana (che è un peccato capitale!), ma per ammonirci sul fatto che siamo tempio dello Spirito Santo e che il Signore vede cosa c’è nel nostro cuore!

All’inizio di questa giornata mi pongo la domanda: nella mia religiosità quanto conta l’apparenza, il desiderio di piacere agli altri, e quanto conta la cura del cuore, e quindi il desiderio di piacere solo a Dio. Quali sono i mercanti che profanano il mio cuore e lo rendono un “covo di ladri”, invece che una “casa di preghiera”? Posso pregare con il salmista, ripetendo spesso: «Crea in me, o Dio, un cuore puro.

don Francesco Pedrazzi

Festa liturgica di San Paolo VI, Papa

1Cor 9,16-19.22-23; Sal 95; Mt 16, 13-19

«Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). Queste parole di San Paolo risuonano nella Prima Lettura propria della festa odierna di San Paolo VI. Le troviamo al centro di uno dei suoi documenti più belli: l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dove il Papa bresciano ricorda che questo monito riguarda tutti i battezzati e che quel “guai” va preso molto sul serio, perché ha a che fare con la nostra salvezza eterna.

Infatti, nella conclusione si legge: «Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna … o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?».

Non annunciare il Vangelo è un’omissione grave. Perché?

San Paolo scrive che per lui evangelizzare è una “necessità”, cioè una cosa di cui non può fare a meno (cf. 1Cor 9,16).

Due similitudini possono aiutare a comprendere questa “necessità”. Come una rondine avverte la necessità impellente di volare, così un cristiano dovrebbe avvertire la necessità di evangelizzare. Solo una rondine malata non sentirebbe il bisogno di volare, così solo un cristiano “malato” non avverte il bisogno di annunciare il Vangelo! Oppure, come uno scienziato che scopre una medicina che può guarire da una malattia incurabile e non vede l’ora di comunicarlo a tutti e di fare in modo che i malati la possano utilizzare, così un cristiano, se davvero crede che la fede in Gesù guarisce il cuore dell’uomo da una malattia mortale e incurabile, non può tenere per sé questa “meravigliosa notizia”, ma sente il bisogno urgente di annunciarla.

Se non avvertiamo il bisogno di testimoniare il Vangelo è perché non lo abbiamo pienamente accolto nemmeno noi!

San Paolo VI ci ricorda altresì che non è possibile testimoniare in modo credibile il Vangelo se non siamo uniti tra di noi. E per essere uniti tra di noi è necessario essere uniti alla pietra che è a fondamento della Chiesa, cioè alla professione di fede di Pietro, di cui ci parla il Vangelo della festa di San Paolo VI. Se ci separiamo da Pietro e dagli altri pastori, perderemo la comunione tra di noi. E l’annuncio del Vangelo sarà vano.

Infine, San Paolo VI ci insegna che nel nostro tempo il Vangelo può essere annunciato in modo efficace solo tramite la testimonianza di una vita santa, prima ancora che tramite le parole. E la vita santa si vede dalla disponibilità a lenire le piaghe dei fratelli, tramite l’ascolto paziente, il servizio umile e disinteressato e soprattutto la preghiera e il sacrificio. È in questo modo che saranno conquistati dalla Bellezza dell’Amore crocifisso.

Mi chiedo: in che modo il Signore mi sta chiedendo di testimoniare il Vangelo laddove vivo ogni giorno?

don Francesco Pedrazzi

Santissima Trinità

Dt 4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17; Mt 28,16-20 

«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli…». Fissiamo l’attenzione sul verbo e sulla congiunzione: «Andate dunque». Qui c’è la direzione, il senso della vita. Vivere è “andare” avendo una direzione chiara da seguire e con la forza di chi ci ha inviati.

Un corpo si muove perché c’è una una forza che l’ha messo in movimento. Una freccia “vola” perché è stata scoccata da qualcuno che, guardando il bersaglio, ha preso la mira

Questo qualcuno è Gesù, vero Dio e vero uomo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Grazie a Lui abbiamo conosciuto che Dio è comunione trinitaria, Oceano d’amore. Abbiamo conosciuto “il bersaglio” della nostra vita: «Fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

Il senso della vita non è bighellonare in modo disordinato e senza una meta, ma andare, confidando nella “forza” del Risorto, e avendo chiara  la direzione: “fare discepoli” “battezzando”.

Il discepolo è colui che non vive per se stesso, ma per un altro. Vive per il proprio Maestro. Questa è la salvezza! Il veleno del peccato ci fa credere che siamo maestri, autonomi, autoreferenziali… Lo Spirito Santo ci fa scoprire che il senso dell’esistenza è vivere da discepoli e mettersi al servizio gli uni degli altri. Come Gesù: «Non faccio nulla da me stesso ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28).

Siamo discepoli in quanto battezzati. Battezzare significa “immergere”. Il “nome” è la realtà profonda, la vita di Dio. Il Battesimo ci ha fatti sprofondare nell’oceano infinito d’amore che è la vita di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo: la “vita relazionale”, in cui ogni Persona è totalmente “relativa” alle altre due, in cui non viviamo più per noi stessi, ma per Colui che è morto e risorto per noi (2Cor 5,15).

Vivere da cristiani non è tanto un fare qualcosa per Dio, quanto piuttosto permettere a Dio d’immergerci continuamente nel suo Amore e d’immergervi gli altri attraverso di noi, per poter esclamare, con Santa Caterina da Siena: «O abisso, o Trinità eterna, o Deità, o profondissimo Mare! E che più potevi dare a me che te medesimo? Tu sei un fuoco che arde sempre e non si consuma. Sei tu che consumi col tuo calore ogni amor proprio dell’anima!».

La nostra vita è immersa dal giorno del Battesimo nel “Mare profondissimo” della vita stessa di Dio! Meditiamo oggi su questa verità stupenda e ringraziamo il Signore e coloro di cui il Signore si è servito per renderci suoi discepoli!

don Francesco Pedrazzi

Visitazione della Beata Vergine Maria

Sof 3,14-18 opp. Rm 12,9-16b; Cant. Is 12,2-6; Lc 1,39-56  

Una “grande gioia” è la cornice di questo incontro tra due donne, due madri: Maria ed Elisabetta e tra i loro figli, Gesù e Giovanni, che portano in grembo.

Una «grande gioia, che sarà di tutto il popolo», annunciata dagli angeli al momento della nascita del Salvatore (cf. Lc 2,10). Ora è ancora una piccola sorgente, ma destinata a crescere e a divenire un grande fiume.

Questa gioia può essere compresa solo a partire dalla fede di queste due donne, cioè dalla capacità di cogliere il senso profondo di ciò che vivono, il cui vero protagonista è il Signore. Elisabetta, infatti, riconosce in Maria non soltanto una parente che le fa visita, ma la “benedetta tra le donne” e la “Madre del suo Signore”!

Colpisce il fatto che la Madre di Gesù, nel suo cantico di lode, proclami le opere di Dio utilizzando verbi al passato: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili…». Sappiamo che i superbi e i prepotenti hanno continuato a infierire sui deboli e sugli umili anche dopo la venuta di Gesù. Ma il cuore purissimo di Maria vede al di là della coltre del presente. Vede in anticipo il compimento del Regno di Dio, mentre le tenebre ancora avvolgono la terra.

Questa è un’opera meravigliosa dello Spirito Santo: vedere con il cuore la luce dell’aurora laddove lo sguardo umano e contaminato dal peccato vede solo il buio!

Chiediamo alla nostra Madre celeste di insegnarci ad aprirci all’opera dello Spirito Santo, perché sappiamo vedere in anticipo il trionfo del bene sul male nella nostra vita, in modo da custodire in noi la “grande gioia”.  

don Francesco Pedrazzi

Tb 2,9-14; Sal 111; Mc 12,13-17   

Questa settimana la santa liturgia ci propone la lettura di alcuni brani del libro di Tobia. È una storia molto bella anche sul piano letterario, ma a noi interessa perché è Parola di Dio. Questo vuol dire che è una storia capace di illuminare la nostra storia. In particolare, questo racconto illumina il mistero della sofferenza umana, prefigurando l’opera redentrice di Gesù.

Tobi era un uomo giusto e aveva a cuore al di sopra di ogni cosa di non trasgredire la legge del Signore. Ma è vittima di una contrarietà che ha dell’incredibile: diviene cieco a causa dei farmaci impiegati per curare gli occhi dal danno provocato dalla caduta accidentale di escrementi di uccelli. Nonostante questo, continua a mostrarsi fedele alla legge di Dio. Tuttavia, la prova più dura è rappresentata dalle parole impietose della moglie: «Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene da come sei ridotto!».

Questo è un tipico ritornello del principe del male. Di fronte a una contrarietà, ci vuole far credere che non valga la pena continuare a fidarsi di Dio. Tobi rimane saldo nella fede, come dice il Salmo di oggi: «Beato l’uomo che teme il Signore e nei suoi precetti trova grande gioia. Cattive notizie non avrà da temere, saldo è il suo cuore, confida nel Signore». Proprio grazie a questa fede, la cecità di Tobi diviene il mezzo di cui si servirà la Provvidenza per ricolmare di benedizioni la sua famiglia.

Tobi anticipa così una spiritualità neotestamentaria: riconosce che tutto viene da Dio e tutto va a lui e quindi – come si proclama in ogni Messa -,  «è  veramente cosa buona e giusta rendere grazie sempre e in ogni luogo a Dio». È in questo modo che mettiamo in pratica l’esortazione di Gesù: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio».

Rendiamo a Dio tutto ciò che viviamo, ringraziandolo con il cuore “sempre e in ogni luogo”.  Si dice che il canto dell’usignolo è particolarmente bello e melodioso quando canta sotto la pioggia. Anche noi alleniamoci a cantare a Dio sempre, anche quando piove. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Tb 3,1-11.16-17; Sal 24; Mc 12,18-27 Mc 12,13-17

Tobi è «affranto dal dolore», sospira e piange (Tb 3,1), a causa delle durissime parole della moglie. Ma, invece di voltare le spalle al Signore, rivolge a Lui la preghiera più accorata, una preghiera di abbandono, in cui consegna nelle sue  mani la propria angoscia e tutta la propria vita: «Signore, comanda che sia liberato da questa prova… Per me è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!».

Nello stesso giorno – dice il testo – una donna di nome Sara, figlia di Raguèle, innalza a Dio una preghiera simile. Era «stata data in moglie a sette uomini, ma Asmodèo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei». Una serva di suo padre l’aveva accusata di essere la causa della morte dei mariti, gettandola in uno stato di prostrazione. Sara, come Tobi, consegna a Dio la propria angoscia, divenuta insopportabile, attraverso una supplica fiduciosa.

Ora, si legge nel racconto, «in quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu accolta davanti alla gloria di Dio e fu mandato Raffaele a guarire tutti e due…».

È un’anticipazione dell’intero racconto, perché il lettore possa comprendere un grande insegnamento: nella sua Provvidenza Dio tutto dispone secondo il suo disegno di salvezza (cf. preghiera Colletta della IX settimana del T. O.), purché ci affidiamo totalmente nelle mani di Dio. La preghiera di Tobi e di Sara permette a Dio di intervenire, attraverso l’arcangelo Raffaele, per volgere ogni cosa verso un fine di salvezza e di pace.

Il Vangelo di oggi proclama che noi crediamo nel «Dio dei viventi»: in un Dio che desidera sempre per noi «la vita in abbondanza» (Gv 10,10). Come proclama il Salmo di oggi: «Chiunque spera in Dio non rimane deluso» (cf. Sal 24)! Perché Egli, per la sua «tenerezza» e «misericordia» ha inviato suo Figlio come «un sole che sorge dall’alto», il “Sole della vita”, per rischiare quelli che «stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte…» (cf. Lc 1,78-79).

Questo Sole è prima di tutto il sacramento della Santissima Eucaristia, il sacramento del Cuore di Gesù (a cui è dedicato il mese di giugno!). Lasciamoci illuminare da questo Sole, perché ogni ombra possa diradarsi dal nostro cuore. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Tb 11,5-17, Sal 145, Mc 12,35-37

Siamo nella parte centrale del racconto del libro di Tobia. Tobia, il figlio di Tobi, è inviato dal padre a ritirare del denaro a Gabaèl. Lungo il cammino incontra un misterioso viandante, che si presenta con il nome di Azaria (che significa “Dio aiuta”) e che si dice pratico della regione verso cui Tobia era diretto. Tobia accetta di essere accompagnato, senza immaginare che sotto le spoglie del viandante si celasse nientepopodimeno che l’arcangelo Raffaele. Questi gli consiglia di conservare il fiele, il cuore e il fegato di un pesce da lui pescato per le loro virtù terapeutiche.

Azaria conduce Tobia nell’abitazione di Sara. Il giovane Tobia la chiede in sposa e Raguele acconsente, anche se teme per l’incolumità del marito, a causa di Asmodeo. Nella prima notte di nozze il demonio è in agguato ma, su consiglio di Azaria (ovvero di Raffaele), Tobia prende il fegato e il cuore del pesce e li pone sulla brace dell’incenso. L’odore del pesce respinge il demonio. Tobia e Sara innalzano, infine, una splendida preghiera a Dio.

Il racconto ha un bellissimo significato cristologico. Raffaele significa “il Signore guarisce“. Il pesce è un simbolo di Cristo, già nei primi cristiani. Il fegato (come i reni) rappresenta i più intimi o profondi pensieri e sentimenti dell’uomo, mentre il cuore è il centro stesso della persona. Entro una lettura cristologica, il racconto ci ricorda pertanto che il demonio, il principe del male, il divisore, è allontanato grazie a Gesù, al suo Cuore appassionato e ardente d’amore!   

Tobia e Sara prefigurano la coppia unita in Cristo, nel sacramento del matrimonio, e protetta dal suo Amore. Il matrimonio cristiano è un atto di donazione totale a Dio in Gesù e un modo meraviglioso di vivere il comandamento dell’amore di cui ci parla il Vangelo di oggi, perché – come insegna san Paolo – i coniugi devono amarsi reciprocamente in Cristo come amano se stessi, il proprio stesso corpo (cf. Ef 5,21-33).

Affidiamo al Sacro Cuore di Gesù tutte le coppie e le famiglie cristiane, perché siano come bellissimi prati in cui fiorisce ogni genere di virtù. Amen. 

don Francesco Pedrazzi

Tb 11,5-17; Sal 145; Mc 12,35-37

È il lièto epilogo del libro di Tobia. Tobia torna a casa dopo il lungo viaggio e, seguendo le indicazioni di Raffaele, spalma il fièle del pesce sugli occhi del padre, che riacquista la vista. Il padre piange dalla gioia e benedice il Signore perché aveva disposto con somma sapienza ogni cosa.   

Come si è visto ieri, il pesce è nella tradizione cristiana un simbolo di Cristo. Tobi rivede la luce grazie al fièle del pesce. Il “fièle” è un elemento che troviamo anche nella passione di Gesù: «Gli diedero da bere vino mescolato con fièle», si legge nel vangelo (Mt 27,34). Esso rimanda all’amarezza del calice che Gesù ha bevuto per amore nostro e che ci ha ottenuto il perdono dei peccati.

Una delle immagini più ricorrenti del vangelo per esprimere il passaggio dal peccato alla salvezza è quella della guarigione dalla cecità. Il profeta Isaia preannuncia che il Messia sarebbe stato inviato per aprire gli occhi ai ciechi (cf. 42,7). San Pietro, rivolgendosi ai neo-battezzati, proclama che Dio li ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa (cf. 1Pt 2,9; Is 9,1). Nel Salmo di oggi si loda il Signore che «ridona la vista ai ciechi» (145,8). Mentre nel vangelo di oggi Gesù si rivolge alla folla per denunciare l’incredulità e quindi la “cecità” degli scribi e dei farisei, che non avevano compreso che il Messia, chiamato da Davide “mio Signore”, è il Figlio di Dio. Erano ciechi perché non avevano saputo riconoscere in Gesù «il Messia, il Figlio del Benedetto» (cf. Mc 14,61).

Noi non vediamo Gesù con gli occhi della carne, ma con quelli della fede. Lo vediamo specialmente nel Sacramento del suo Amore: l’Eucaristia. L’imminente solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo ci offre l’occasione per poter vivere un’esperienza gioiosa come quella di Tobi, che mentre piangeva, abbracciando il figlio, esclamava: «Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!»

Diciamoglielo anche noi, contemplando il segno umile e grandioso dell’Ostia santa: «Ti vedo, luce dei miei occhi!», perché mi hai guarito grazie al calice amaro della tua Passione e mi hai fatto passare dalle tenebre alla tua luce meravigliosa!

don Francesco Pedrazzi

 Tb 12,1.5-15.20; Tb 13; Mc 12,38-44

 

Tutte le cose importanti hanno bisogno di una “preparazione”. I fidanzati si preparano in vista del matrimonio, lo studente si prepara per la prova d’esame, lo sportivo per la gara che lo attende, la famiglia per ricevere un ospite in casa…

Per i cristiani c’è un avvenimento che supera per importanza tutti gli altri e che richiede quindi una grande preparazione: è un patto nuziale, ma vale più di un matrimonio; è un dono immenso d’amore, ma anche una “prova” del nostro amore in risposta a questo dono; è un momento sublime, ma che comporta anche un combattimento, perché il demonio fa di tutto per rubarcelo; …è soprattutto un incontro con un Ospite divino! Questo avvenimento è la celebrazione della Santissima Eucaristia.

Nel Vangelo di oggi Gesù dà disposizioni ai suoi discepoli per preparare la Pasqua, che sarebbe stata in realtà la sua “ultima cena“, in cui avrebbe istituito la Santissima Eucaristia.

E oggi, con gioia, celebriamo questa bellissima solennità del Corpo e Sangue di Cristo!

La Sequenza proclama: «Ecce Panis Angelorum | factus cibus viatorum: | vere panis filiorum,| non mittendus canibus»: «Ecco il pane degli angeli, | pane dei pellegrini, | vero pane dei figli:  | non dev’essere gettato ai cani».

L’ultimo verso riprende le parole di Gesù: «Non date le cose sante ai cani» (Mt 7,6). Con il termine “cani” s’intende in primo luogo i pagani; ma non solo: sono come cani coloro che si accostano all’Eucaristia senza alcuna preparazione. Non ci si può accostare a questo “pane dei pellegrini” senza riconoscere in esso il Corpo del Signore! San Paolo scrive, infatti: «Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11,29). Perché? Immaginiamo di ricevere un pacco regalo da un amico e, nel momento stesso in cui lo riceviamo, senza nemmeno scartarlo, lo mettiamo da parte. È come se gli dicessimo: «Non m’interessa la tua amicizia! Non so cosa farmene del tuo regalo!». Chi si accosta alla santa Comunione senza pensare a Chi si va a ricevere, di fatto chiude il cuore a Gesù!

Nel Vangelo di oggi c’è un uomo con la brocca d’acqua, simbolo del Battesimo, perché nessuno può accedere al “piano superiore” e al banchetto eucaristico se non passa prima dalle acque del Battesimo e non indossa l’abito nuziale (cf. Mt 22,11-13). La prima preparazione consiste nell’esaminare il proprio cuore e nel chiedere perdono per i propri peccati. Se vi sono peccati gravi sulla coscienza è necessaria la Confessione, perché, come insegna San Tommaso nella Somma Teologica: «L’anima, se è in stato di peccato, peggiora la sua condizione ricevendo l’Eucarestia, invece di purificarsi» (cf. anche Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1385). Se non vi sono peccati gravi è sufficiente l’atto penitenziale all’inizio della santa Messa, che va vissuto con consapevolezza e intensità.

Un bel modo per prepararci alla santa Messa consiste nell’arrivare qualche minuto prima e nell’invocare l’aiuto della Santa Vergine. Santa Teresa di Gesù Bambino immagina la sua anima come una bimba di tre o quattro anni, tutta in disordine nei capelli e nei vestiti, vergognosa di presentarsi all’altare per ricevere Gesù. Ma fa ricorso alla Madonna e subito – scrive la santa – «la Vergine Maria si affaccenda attorno a me; mi toglie prestamente il grembiulino sudicio e riannoda i miei capelli con un bel nastro o anche con un semplice fiore… E ciò basta per farmi apparire graziosa e farmi sedere, senza arrossire, al banchetto degli Angeli».

Prepariamo sempre anche noi il nostro cuore per ricevere il Pane degli Angeli, perché tutta la nostra vita possa divenire un rendimento di grazie a Dio Padre, per Cristo e nello Spirito Santo. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo​

Es 24,3-8; Sal 115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

Tutte le cose importanti hanno bisogno di una “preparazione”. I fidanzati si preparano in vista del matrimonio, lo studente si prepara per la prova d’esame, lo sportivo per la gara che lo attende, la famiglia per ricevere un ospite in casa…

Per i cristiani c’è un avvenimento che supera per importanza tutti gli altri e che richiede quindi una grande preparazione: è un patto nuziale, ma vale più di un matrimonio; è un dono immenso d’amore, ma anche una “prova” del nostro amore in risposta a questo dono; è un momento sublime, ma che comporta anche un combattimento, perché il demonio fa di tutto per rubarcelo; …è soprattutto un incontro con un Ospite divino! Questo avvenimento è la celebrazione della Santissima Eucaristia.

Nel Vangelo di oggi Gesù dà disposizioni ai suoi discepoli per preparare la Pasqua, che sarebbe stata in realtà la sua “ultima cena“, in cui avrebbe istituito la Santissima Eucaristia.

E oggi, con gioia, celebriamo questa bellissima solennità del Corpo e Sangue di Cristo!

La Sequenza proclama: «Ecce Panis Angelorum | factus cibus viatorum: | vere panis filiorum,| non mittendus canibus»: «Ecco il pane degli angeli, | pane dei pellegrini, | vero pane dei figli:  | non dev’essere gettato ai cani».

L’ultimo verso riprende le parole di Gesù: «Non date le cose sante ai cani» (Mt 7,6). Con il termine “cani” s’intende in primo luogo i pagani; ma non solo: sono come cani coloro che si accostano all’Eucaristia senza alcuna preparazione. Non ci si può accostare a questo “pane dei pellegrini” senza riconoscere in esso il Corpo del Signore! San Paolo scrive, infatti: «Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11,29). Perché? Immaginiamo di ricevere un pacco regalo da un amico e, nel momento stesso in cui lo riceviamo, senza nemmeno scartarlo, lo mettiamo da parte. È come se gli dicessimo: «Non m’interessa la tua amicizia! Non so cosa farmene del tuo regalo!». Chi si accosta alla santa Comunione senza pensare a Chi si va a ricevere, di fatto chiude il cuore a Gesù!

Nel Vangelo di oggi c’è un uomo con la brocca d’acqua, simbolo del Battesimo, perché nessuno può accedere al “piano superiore” e al banchetto eucaristico se non passa prima dalle acque del Battesimo e non indossa l’abito nuziale (cf. Mt 22,11-13). La prima preparazione consiste nell’esaminare il proprio cuore e nel chiedere perdono per i propri peccati. Se vi sono peccati gravi sulla coscienza è necessaria la Confessione, perché, come insegna San Tommaso nella Somma Teologica: «L’anima, se è in stato di peccato, peggiora la sua condizione ricevendo l’Eucarestia, invece di purificarsi» (cf. anche Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1385). Se non vi sono peccati gravi è sufficiente l’atto penitenziale all’inizio della santa Messa, che va vissuto con consapevolezza e intensità.

Un bel modo per prepararci alla santa Messa consiste nell’arrivare qualche minuto prima e nell’invocare l’aiuto della Santa Vergine. Santa Teresa di Gesù Bambino immagina la sua anima come una bimba di tre o quattro anni, tutta in disordine nei capelli e nei vestiti, vergognosa di presentarsi all’altare per ricevere Gesù. Ma fa ricorso alla Madonna e subito – scrive la santa – «la Vergine Maria si affaccenda attorno a me; mi toglie prestamente il grembiulino sudicio e riannoda i miei capelli con un bel nastro o anche con un semplice fiore… E ciò basta per farmi apparire graziosa e farmi sedere, senza arrossire, al banchetto degli Angeli».

Prepariamo sempre anche noi il nostro cuore per ricevere il Pane degli Angeli, perché tutta la nostra vita possa divenire un rendimento di grazie a Dio Padre, per Cristo e nello Spirito Santo. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 

2Cor 1,1-7; Sal 33; Mt 5,1-12a

La Seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi ci accompagnerà per due settimane nella liturgia feriale. È uno dei testi più suggestivi dell’Apostolo, in cui confida i suoi sentimenti più profondi e il desiderio vivo di consumarsi per amore di Cristo e dei fratelli.

Nei primi versetti benedice Dio con queste parole: «Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio».

La parola “consolazione” va bene intesa. Non è il “contentino”, il “premio di consolazione” che Dio dà a chi soffre. Ma la gioia maggiore, perfetta, perché di origine spirituale e divina. La parola usata, infatti, è “paraklêsis”, che rimanda allo Spirito Santo, il “Paraclito”, il cui frutto è la gioia e la pace (cf. Gal 5,22). Per questo Paolo scrive nel capitolo secondo: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2Cor 7,4).

Viene in mente un passo della Lettera di San Giacomo: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove…» (Gc 1,2) che ispirò quella incredibile risposta di San Francesco d’Assisi a Frate Leone: «Quando saremo arrivati a Santa Maria degli Angeli […] – disse Francesco – e il frate portinaio […] non riconoscendoci, dirà che siamo due impostori […] lasciandoci fuori al freddo della neve […], e se noi sopporteremo tutto con pazienza ed umiltà, senza parlar male del nostro confratello […] pensando alle pene del Cristo benedetto, […] Ecco: in questo sta la perfetta letizia!».

Sono parole per ogni battezzato, non per pochi eletti, e che risuonano nel vangelo odierno: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati!». Non è ovviamente il pianto che rende “beati”, “pervasi di gioia” ma l’essere consolati da Dio, dal suo Amore! Il pianto di chi ama e accetta tutto nella pace, «pensando alle pene di Cristo benedetto», sapendo che tutto concorre alla salvezza dei fratelli: «Quando siamo tribolati – scrive Paolo – è per la vostra consolazione e salvezza!».

Offriamo al «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione», le piccole e grandi tribolazioni di questa giornata, in modo da poter ricevere salvezza per noi e per i nostri fratelli. Amen.

don Francesco Pedrazzi

2Cor 1,18-22; Sal 118; Mt 5,13-16 

Paolo risponde a chi lo accusava di essere un volta bandiera, perché in un primo tempo aveva detto che sarebbe tornato a Corinto e in seguito aveva cambiato idea, a causa un fatto grave accaduto in questa comunità, a cui la lettera accenna soltanto, senza precisarne i contorni.

Egli sa, in coscienza, di aver agito correttamente, non seguendo calcoli umani, ma guidato dallo Spirito di Cristo. Scrive: «Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui vi fu il “sì”».

 È un modo di esprimersi tipicamente ebraico. Il “sì” dice la fedeltà a Dio e alla sua volontà, mentre il “no” dice la ribellione del peccato. Paolo sa che la sua missione è di fare risplendere la luce di Cristo (4,5-7) e di diffondere il suo profumo (2,15) presso coloro a cui è stato inviato. E sa che ciò è possibile nella misura in cui Cristo “vive in lui” (cf. Gal 2,20).

«Voi siete la luce del mondo…» – ci dice Gesù nel Vangelo di oggi.  «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Ma ci pensiamo? Quello che Paolo scrive vale anche per noi, perché anche noi, come lui, abbiamo ricevuto «l’unzione» dello Spirito Santo e il suo «sigillo» (2Cor 1,21-22). Gesù non ci dice “siate luce”, ma “siete la luce del mondo”! Lo siamo per il Battesimo e la Confermazione. Siamo riflesso della luce di Cristo per le persone che ci ha affidato. Ma come la superficie di un lago può riflettere il cielo solo se è ferma, così anche noi se siamo fermi, costanti nel nostro “sì” alla volontà di Dio, nella misura in cui siamo intimamente uniti a Cristo, possiamo riflettere la bellezza del Cielo per le persone che Dio ci ha affidato.

 

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 3,4-11; Sal 98; Mt 5,17-19 

C’è una parola nella Bibbia che racchiude tutto il progetto di salvezza: questa parola è “alleanza”. L’alleanza è l’offerta di amicizia da parte di Dio all’umanità. Dio parla agli uomini per invitarli a entrare in una relazione di amicizia (cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e per «ammetterli alla comunione con sé» (cf. Dei Verbum 2). Sappiamo di essere entrati in questa “alleanza”, se osserviamo con gioia e libertà i suoi comandamenti.

Nel testo odierno della seconda lettera ai Corinzi, Paolo si definisce ministro «di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito». Gesù, infatti, è venuto per rinnovare la prima alleanza, infranta a causa delle infedeltà del suo popolo. La prima alleanza aveva lo scopo di mostrare che un rapporto basato su un’osservanza solo esteriore della legge è destinato a fallire (cf. Gal 3,19-25). In tal senso San Paolo scrive: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita». La grande novità apportata da Gesù è il dono dello Spirito Santo, che è l’amore stesso di Dio (cf. Rm 5,5), mediante il quale la sua legge è posta dentro di noi, ed è incisa non più su tavole di pietra ma sulle tavole di carne del nostro cuore (cf. 2Cor 3,3; Ger 31,33).

Questo cambia tutto! È la differenza radicale tra chi obbedisce a un ordine da servo, per dovere e timore, e chi lo fa da figlio, per amore e gratitudine.

Nel vangelo di oggi Gesù ricorda che non è venuto per abolire la legge, ma per darle pieno compimento. In che modo? Infiammando i nostri cuori del “Fuoco” dello Spirito, in modo tale che la capacità di osservare la legge non provenga più da noi stessi ma da Dio (cf. 2Cor 3,5). Come il fuoco tende sempre verso l’alto, così – se i nostri cuori ardono dello Spirito di Cristo -, trovano necessariamente gioia nell’osservare la legge di Dio e nell’obbedire anche ai minimi precetti, stabiliti da Cristo attraverso i suoi pastori.   

San Giovanni scrive: «Da questo sappiamo di avere conosciuto e amato Cristo: se osserviamo i suoi comandamenti» (cf. 1Gv 2,3). Se siamo infedeli a Dio, ecco il rimedio principale: avviciniamoci maggiormente a quel braciere ardente di amore che è il Cuore di Gesù, perché ci infiammi del fuoco del suo Spirito e possiamo camminare secondo i suoi sentieri. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 3,15 – 4,1.3-6; Sal 84; Mt 5,20-26

L’intento principale della seconda lettera ai Corinzi è quello di difendere il ministero apostolico da una falsa immagine che andava diffondendosi, specialmente a causa di quelli che Paolo chiama «falsi apostoli» (11,13) o «superapostoli» (11,5; 12,11). Qui non dobbiamo pensare agli “Apostoli” istituiti da Gesù, ma a cristiani che si presentano come inviati per annunciare il Vangelo (“apostolo” significa “inviato”), ma che di fatto screditano il ministero, arrecando un danno enorme alla Chiesa, perché invece di condurre le persone a Cristo, le conducono a se stessi. Il loro orgoglio li porta a creare cerchie di fedeli, soggiogati dalla loro personalità (cf. 11,20).

Il vero apostolo di Cristo è tutt’altra cosa. Nel corso della lettera emerge il suo ritratto. Non è autoreferenziale e – come si legge nella prima lettura di oggi –  non “annuncia se stesso ma Cristo Gesù”, facendosi per suo amore umile “servitore” dei fratelli (cf. 4,5).  Inoltre, è disposto ad accettare ogni umiliazione pur di camminare nella via indicata da Cristo che è quella dell’obbedienza «perfetta» (cf. 10,5-6), per condurre anche i fratelli a questa obbedienza in modo che siano in «comunione» «con loro» e tramite loro «con tutti»: cioè con tutta la Chiesa (cf. 9,13).

Il criterio ultimo è la sincera ricerca, nella verità e per quanto dipende da noi, della pace e della comunione con tutti (Rm 12,18), evitando «animosità e dissensi» (2Cor 12,20). È ciò che chiede anche Gesù ai suoi discepoli nel Vangelo di oggi. Invita a cercare sempre un accordo con i fratelli, perché nessuno può entrare nel Regno di Dio, che è Regno di comunione, se non fa di tutto per rimanere in comunione con il Corpo ecclesiale. «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui – dice Gesù – perché …  tu non venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!».

Già San Cipriano coglieva in questo passo un’allusione a ciò che in seguito la Chiesa avrebbe chiamato “purgatorio”; essere gettati in prigione – scriveva il vescovo di Cartagine – significa «esser purificati dai peccati con lunghe sofferenze e con fuoco persistente» (Ep. 55 ad Antonianum, n. 20). Come un gabbiano non può innalzarsi in cielo se le sue ali sono imbrattate dal petrolio, così la nostra anima non può andare a Dio se è imbrattata dalla discordia e dall’orgoglio.

Alla vigilia della Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, preghiamo per tutti coloro che sono investiti di un ministero apostolico, per tutti i sacerdoti, perché custodiscano sempre il tesoro della comunione con la Chiesa di Cristo. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 Os 11,1.3-4.8c-9; Cant. Is 12,2-6; Ef 3,8-12.14-19; Gv 19,31-37

«In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10)

Siamo sulle vette più alte della rivelazione. Queste parole sono state scritte dal discepolo che Gesù amava, a cui la tradizione accosta il simbolo dell’aquila, perché, secondo la leggenda, gli occhi dell’aquila possono sostenere la luce del sole.

Oggi, in questa magnifica solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, ci viene chiesto di fissare gli occhi verso una luce infinitamente più grande di quella del sole. È la luce dell’amore di Dio: «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, v. 145).

Tutto è mosso dall’Amore e noi abbiamo conosciuto l’Amore volgendo lo sguardo a Colui che hanno trafitto (cf. Zc 12,10; Gv 19,37).

«Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco – si legge nel vangelo do oggi – , e subito ne uscì sangue e acqua». Gesù aveva rivelato il volto di Dio con segni e parole, ma il messaggio più alto ce lo dona nel silenzio, attraverso questa immagine che riassume tutto il vangelo.

La Chiesa ha potuto coglierne il pieno significato lungo i secoli anche grazie ad alcune esperienze mistiche. A Santa Margherita Maria Alacoque Gesù mostra un cuore coronato di spine e dice: «Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini e dai quali non riceve che ingratitudini e disprezzo…». Ecco chi è Dio:  l’Amore che ama sempre, anche quando è rifiutato e disprezzato! A Santa Faustina Kowalska mostra due raggi – uno pallido e uno rosso – che escono dal suo fianco. E le dice: «Il raggio pallido rappresenta l’Acqua che giustifica le anime il raggio rosso rappresenta il Sangue che è la vita delle anime». Ecco in che modo l’Amore di Dio ci raggiunge e ci trasforma: attraverso il sacramento del Battesimo (e della Confessione) lava i nostri peccati, attraverso la Santissima Eucaristia ci nutre della sua Vita divina.

L’acqua e il sangue sigillano il vangelo di Cristo, venuto per mettere in luce il volto paterno di Dio. Un po’ di questa luce filtrava già nelle pagine del Primo Testamento. Come attestano le parole de profeta Osea nella prima lettura. Il Signore si presenta «come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare». Ed esclama: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira… perché sono Dio e non uomo…» (cf. Os 11,4.8-9).

Prima di Gesù queste parole potevano apparire troppo belle per essere vere. Come può essere Dio tanto buono! Ora che il Figlio di Dio abita nei nostri cuori – come si legge nella seconda lettura – siamo «in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza…» (Ef 3,17.19).

Perciò: attingiamo con gioia alle sorgenti della salvezza! Rendiamo grazie al Signore e invochiamo il suo nome… facciamo ricordare che il suo nome è sublime (cf. Is 12,3-4)

Viviamo nella gratitudine questa festa dell’Amore di Dio. Lasciamoci toccare il cuore dal Cuore trafitto di Gesù. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 Is 61,9-11; Cant. 1Sam 2,1.4-8; Lc 2,41-51

Il cuore di Maria è “immacolato”, senza macchia. Una piccola macchia basta a rovinare la bellezza di un quadro di valore. Il cuore umano è come un quadro di valore inestimabile e la macchia che lo rovina è il peccato.  Ora, la Chiesa ha solennemente proclamato nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Quattro anni dopo, a Lourdes, la Madre Celeste si è presentata a Bernadette Soubirous con le parole: «Io sono l’Immacolata Concezione». Ma già ventiquattro anni prima, nel 1830, aveva chiesto a Caterina Labouré di fare incidere una medaglia con la scritta: «O Maria concepita senza peccato prega per noi che ricorriamo a Te». Nella medaglia la Madonna poggia i piedi su un globo e schiaccia la testa a un serpente, simbolo di satana e delle forze del male.

Il mondo è come un mare inquinato dal veleno di satana. Dio allora ha iniziato una nuova creazione e l’inizio della nuova creazione è il Cuore Immacolato di Maria. Questo Cuore è una sorgente di acqua viva e pura e quest’acqua è Cristo. Perciò i Cuori di Gesù e Maria sono profondamente uniti. Non si possono separare come non si separa l’acqua dalla sua sorgente, il frutto dall’albero, il germoglio dalla terra. «Come la terra produce i suoi germogli… – si legge nella prima lettura – così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti» (Is 16,11).

Gesù è la Giustizia germogliata dal Cuore Immacolato di Maria; è il frutto benedetto del seno della benedetta tra le donne. Gesù è la Luce che illumina ogni uomo, Maria è colei può “irradiare sul mondo la Luce eterna” (cf. Prefazio della Beata Vergine Maria I) perché è Speculum Iustitiae, uno specchio senza macchia: quanto più ricorriamo alla Madre, tanto più siamo rischiarati dalla Luce di Cristo!

La redenzione si compie nell’ora della Passione attraverso l’opera congiunta del Figlio e della Madre. Due cuori uniti sul Calvario dalla docilità alla volontà dal Padre. L’episodio raccontato dal vangelo di oggi del ritrovamento di Gesù al tempio preannuncia l’ora suprema. Maria “custodisce tutte queste cose nel suo cuore” e si prepara sin da allora a divenire madre dell’umanità: «Donna, ecco tuo figlio!», «Ecco tua madre!» (Gv 19,26). Con queste parole Gesù ci chiede di seguirlo rimanendo sempre alla presenza di sua Madre, confidando nell’aiuto di colei che è preservata dal peccato ma non dalla sofferenza. È guardando a Maria che impariamo che il dolore può divenire il luogo della donazione alla massima potenza.

Ecco la grazia più grande che possiamo chiedere alla Madonna in questa memoria del suo Cuore Immacolato: poter credere sempre alla bontà di Dio anche quando una spada ci trafigge il cuore, perché questa è la strada percorsa anche da lei e da suo Figlio. Camminando su questa strada possiamo anche noi mettere sotto i piedi il serpente antico, colui che rovina la bellezza del nostro cuore. Di nient’altro dovremmo essere preoccupati che di questo: «Essere santi e immacolati al cospetto di Dio nell’amore» (cf. Ef 1,4).  

don Francesco Pedrazzi

 Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

Le parabole del seme”. Così potremmo chiamare questa sezione del Vangelo di Marco, in cui il Regno di Dio è descritto con tre parabole (di cui due sono riportate nel vangelo di oggi),  che hanno come denominatore comune il tema della semina.   

Nella prima l’attenzione cade sul terreno che accoglie il seme della Parola di Dio. Il seme porta frutto solo se cade sul “terreno buono”. L’invito è a esaminare il terreno del proprio cuore per rimuovere le pietre e le spine che ci impediscono di accogliere la Parola. 

Nella seconda parabola, propria di Marco, l’attenzione è posta sulla forza che il seme ha in sé stesso di crescere e portare frutto, indipendentemente dall’intervento dell’uomo che lo getta nel terreno. Qui la prospettiva cambia completamente rispetto alla prima parabola: dall’accoglienza da parte nostra della Parola al mandato lasciato ad ogni battezzato di “gettare il seme” della Parola, e quindi di annunciarla.

Quanto sono liberanti queste parole di Gesù! …perché è come se ci dicesse: tu preoccupati soltanto di seminare la Parola, senza guardare ai risultati, perché il compito di farla crescere e i tempi della crescita non dipendono da te, dipendono solo da Me! Sappi solo che – come scrive Isaia – la mia Parola «non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero…» (Is 55,11).  

Similmente, l’ultima parabola, quella del granellino di senape, che è «è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno» ma che, «quando cresce diventa più grande di tutte le piante dell’orto…», ci libera dall’ossessione dei risultati, entro una logica puramente mondana. Ciò che è grande davanti a Dio può apparire insignificante agli occhi dell’uomo e viceversa. Perciò, vale sempre la pena seminare il bene, la verità e la speranza, anche quando non otteniamo risultati visibili, anzi anche quando seminiamo amore e raccogliamo ostilità.

La prima lettura ci ricorda che Dio è Colui che umilia l’albero alto, cioè orgoglioso, e innalza l’albero basso, cioè umile. E Gesù ci ha detto che, quando si compirà il Regno, ne vedremo delle belle: «Alcuni dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi» (Mc 10,31). Non preoccupiamoci perciò del giudizio degli uomini, ma solo di quello di Dio.

È il messaggio racchiuso in quelle celebri parole di Madre Teresa di Calcutta: «Se fai il bene ti attribuiscono secondi fini egoistici. Non importa, fa il bene! … | Il bene che fai verrà domani dimenticato. Non importa, fai il bene! | L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile. Non importa, sii franco e onesto! |  Quello che per anni hai costruito può essere distrutto in un attimo. Non importa, tu continua a costruire! …».  

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 6,1-10; Sal 97; Mt 5,38-42

Il segreto della bellezza dei diamanti è l’enorme pressione che hanno subito sottoterra, tant’è che la qualità di un diamante dipende dalla sua durezza, cioè dalla resistenza alla pressione. Similmente, la qualità delle virtù di un cuore umano la si vede quando è sottoposto alle prove della vita. Anche la qualità del nostro amore per Cristo e della nostra amicizia con Lui la si vede nel modo in cui reagiamo al male che inevitabilmente ci insidia nelle sue varie forme: imprevisti, incidenti, malattie, invidie, prove di obbedienza, persecuzioni… «C’è infatti chi è amico quando gli fa comodo – si legge nel libro del Siracide – ma non resiste nel giorno della tua sventura» (Sir 6,8)

San Paolo è un maestro impareggiabile su questo tema, che è l’essenza stessa del Vangelo di Gesù. Non si stanca di ripetere nelle sue lettere che, pur essendo sottoposto a prove di ogni genere, non si perde d’animo, perché, per la fede in Gesù crocifisso, ha imparato a confidare nella forza di Dio: anzi, più si sente debole, più cresce la fiducia nella forza di Dio, perciò giunge ad esclamare: «Mi rallegro delle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor, 12,10). È dinanzi al male che si prova l’autenticità del bene ed è di fronte all’odio che si prova la grandezza dell’amore.

Tutto questo emerge anche dai testi biblici della liturgia odierna. Paolo esorta i cristiani di Corinto a rimanere “fermi” nel tempo della prova, che è un «momento favorevole» per amare Dio e “per la nostra salvezza”.  Ricorda che bisogna rispondere «nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce … nelle fatiche…» cercando di “non essere motivo di scandalo per nessuno”, e di mettere in campo le virtù più cristalline del cristiano, come la «magnanimità», cioè la capacità di rimanere forti e stabili dinanzi alla malvagità altrui, la «benevolenza», lo «spirito di santità»… in modo da apparire «come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!».

È l’attuazione delle parole di Gesù nel vangelo di oggi: ««Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio” e “dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra…».

Dov’è la vera forza? Nello schiacciare il nemico? Nel fargliela pagare? Nel fare valere le proprie ragioni? No, la forza più grande, quella che viene dallo Spirito Santo, consiste nel non lasciarsi avvelenare dal male che c’è attorno a noi, ma nel vincerlo rimanendo saldi nel bene e nell’amore. «Non lasciarti vincere dal male – scrive san Paolo ai cristiani di Roma – ma vinci il male con il bene» (cf. Rm 12,21).

Queste parole siano la nostra stella polare: non lasciamoci vincere dal male, ma continuiamo a seminare il bene, “come afflitti, ma sempre lieti”, col desiderio di “arricchire molti” contando sulla forza di Dio. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 8,1-9; Sal 145; Mt 5,43-48

In due capitoli della seconda lettera ai Corinzi, Paolo parla di una colletta, cioè di una raccolta di denaro in favore dei poveri della comunità di Gerusalemme. Potrebbe apparire strano che in un testo tanto elevato sul piano spirituale si passi a un certo punto a parlare di denaro. In realtà, Paolo considera questo gesto come un vero e proprio servizio di culto nei confronti del Signore e una prova della «sincerità» dell’amore!

Per quale ragione? Ogni cristiano deve essere generoso per imitare Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero» per arricchirci con l’esempio della sua povertà. Perciò, quando siamo generosi, prima ancora che arricchire gli altri, ci lasciamo arricchire da Dio. L’Apostolo scrive che essere generosi è una «grazia» che Dio concede a quanti hanno conosciuto l’amore di Cristo. Non dovrebbe essere la conseguenza di un “comando” esteriore, ma di un’esigenza interiore frutto dell’Amore di Dio che abita in noi. Non solo: condividere i propri beni materiali e il proprio denaro con chi è nel bisogno è un modo di donare la propria vita a Dio e ai fratelli, sull’esempio di Cristo.

Ecco perché un gesto di condivisione del proprio denaro è entrato anche nella liturgia eucaristica. Non sottovalutiamo il momento della cosiddetta “elemosina” durante la Messa! Parafrasando lo stesso Paolo, non dovrebbe essere una “spilorceria” (2Cor 9,5), perché dice il nostro desiderio di donarci a Dio, nel Sacrificio eucaristico, servendolo nei poveri e sovvenendo ai bisogni della Chiesa.

San Giovanni scrive: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità». (1Gv 3,16-18)

Il Vangelo ci ricorda un secondo criterio che ci fa capire se l’Amore di Dio è in noi: l’amore per i nemici. Il Padre «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti», perciò se il suo Amore è in noi dovremmo fare altrettanto. Se, infatti, amiamo solo quelli che ci amano non facciamo nulla di straordinario, siamo ancora sullo stesso piano dei pagani! Un modo di amare i nemici sempre alla nostra portata è pregare per loro.

Mi chiedo: come sto amando? Nei fatti o solo a parole? Sono generoso o spilorcio? Mi sforzo di amare in modo misericordioso ogni persona che Dio mette sul mio cammino, pregando anche per i nemici, oppure il mio amore è “meritocratico” e selettivo?

Un albero buono lo si riconosce dai frutti. E sull’albero della vita cristiana non possono mancare i frutti della generosità e della misericordia.

don Francesco Pedrazzi

 

 2Cor 9,6-11; Sal 111; Mt 6,1-6.16-18

«Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà». Paolo enuncia qui un detto sapienziale che non riguarda solo l’invito a prendere parte con generosità a una colletta a favore dei poveri, ma l’insieme della vita cristiana. Gesù stesso ha insegnato che a ciascuno verrà dato secondo la misura della propria generosità: «Con la misura con la quale misurate – disse – sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,38). Pertanto, chi punta al minimo in questa vita, riceverà il minimo nel Regno dei Cieli.

L’Apostolo enuncia subito dopo un altro principio generale: «Dio ama chi dona con gioia». Non basta donare con generosità, occorre farlo con gioia. È chiaro che la gioia deriva dall’amore riconoscente verso Dio. Siamo felici quando ci doniamo gratuitamente al prossimo, sapendo che Dio si è donato totalmente e gratuitamente a noi!

Il vangelo di oggi ci ricorda che l’elemosina è una delle tre opere fondamentali della giustizia cristiana, accanto alla preghiera e al digiuno. La giustizia è ciò che ci rende graditi a Dio. Siamo graditi a Dio quando compiamo queste tre opere: gli consegniamo i beni materiali e spirituali tramite l’elemosina e la carità, gli consegniamo il nostro cuore tramite la preghiera e il nostro corpo tramite il digiuno.

Queste opere sono compiute anche in altre religioni. Ciò che contraddistingue il discepolo di Gesù è che le mette in pratica con spirito di gratuità e non cercando il proprio interesse, solo ed esclusivamente per riconoscenza verso Dio, dal quale si sente amato immensamente e senza condizioni. Se, invece, queste opere sono compiute per piacere agli uomini perdono valore davanti a Dio.

Come un aquilone ha bisogno di essere sospinto da un vento ascendente per innalzarsi in cielo, così le nostre opere possono salire a Dio solo se animate da un amore puro, umile, gioioso e riconoscente.

Chiediamo a Dio di purificare le intenzioni del nostro cuore, perché sappiamo praticare la carità, la preghiera e il digiuno con gioia e generosità, cercando soltanto la gloria di Dio, non la nostra gloria. Amen

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 11,1-11; Sal 110; Mt 6,7-15

Nel brano di oggi Paolo tratta uno dei problemi principali che lo hanno indotto a scrivere questa lettera: quello dei cosiddetti “superapostoli”. Si tratta di cristiani che diffondono idee diverse da quelle insegnate dalla Chiesa ufficiale, indebolendo così la comunione dei fedeli con Cristo. Lo fanno con un atteggiamento di “superiorità”, cioè presentando le loro idee come migliori rispetto alla dottrina insegnata dagli stessi Apostoli istituiti da Cristo (per questo li chiama ironicamente “superapostoli”). Essi, in realtà, che lo sappiano o no, sono falsi apostoli e agiscono in nome del «serpente che con la sua malizia sedusse Eva», perché a causa loro pensieri i fedeli vengono «traviati dalla loro semplicità e purezza…». L’ipocrisia dei superapostoli è mostrata anche dal fatto che, a differenza di Paolo, non annunciano il vangelo gratuitamente, ma ricercano un vantaggio economico.

Sono mercenari, non veri pastori, che conducono parte del gregge di Cristo su luoghi impervi e scivolosi, dove le pecore possono cadere rovinosamente ed essere sbranate dai lupi.

Quanto è attuale questa pagina della Seconda lettera ai Corinzi!

Paolo biasima i cristiani di Corinto scrivendo: «Se il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi … voi siete ben disposti ad accettarlo!».

Da notare che il problema di fondo, dal punto di vista della fede, è che si mette la parola di “uno”, di un singolo, del “primo venuto”, al di sopra del “noi“, cioè della parola ufficiale della Chiesa! In genere questo avveniva perché si dava ascolto a false rivelazioni che sembravano provenire dal Cielo e si dava ad esse maggiore importanza rispetto all’insegnamento degli Apostoli. Infatti, Paolo scrive altrove: «Se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema» (Gal 1,8).

Oggi purtroppo questa tendenza è molto diffusa e stanno prendendo piede ovunque cerchie settarie di fedeli che rompono la Comunione con la Chiesa universale e diocesana in nome dei loro “superapostoli” (considerati “più santi” degli altri), e in nome di false rivelazioni celesti, in cui c’è lo zampino del “Divisore”.

Nel vangelo di oggi Gesù invita a pregare non confidando nella forza delle parole ma nella fiducia filiale che anima la nostra preghiera. Ciò non significa che non si possano usare anche molte parole nella preghiera (come insegnano i santi!), ma che queste sono inutili se nel nostro cuore non desideriamo prima di tutto che si compia in noi la volontà del Padre. La preghiera che egli insegna diviene il criterio per capire se preghiamo bene. Normalmente quando preghiamo iniziamo da noi stessi. Il Padre nostro ci insegna, invece, a iniziare da Dio, ovverossia a desiderare prima di tutto che sia conosciuta da tutti la santità di Dio e che si compia il suo regno e la sua volontà! Il “pane quotidiano”, come insegnavano già sant’Agostino e San Cipriano, non è solo il sostentamento materiale, ma è la santissima Eucaristia e la Parola di Dio, che dovremmo ricevere ogni giorno (cf. Agostino, Discorsi n. 58,4.5; Cipriano, Trattato sul Padre nostro nn. 18-22).

Se chiediamo “ogni giorno” il dono della Santissima Eucaristia, ci preoccupiamo anche di riceverla, con cuore umile e adorante, ogni giorno?

Questo è solo un esempio di come il Padre nostro rappresenti, sin dai primi secoli, un baluardo della vera dottrina cristiana. Meditandolo, con l’aiuto del Magistero della Chiesa, siamo custoditi nella retta fede e dagli inganni dei superapostoli del nostro tempo.  

don Francesco Pedrazzi

 2Cor 12,1-10; Sal 33; Mt 6,24-34

«

Paolo ricorda che potrebbe vantarsi per le rivelazioni ricevute, essendo peraltro stato rapito «con il corpo o senza corpo» in paradiso. Ma non si vanta di questo! Ribadisce: «Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze!»

E qui consegna alla lettera una sua confidenza: spiega in che modo ha capito che il segreto della vera forza consiste nella coscienza della propria debolezza. Ascoltiamo questo toccante e celebre racconto:

«Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”».

Che cos’è questa spina nella carne? Questo inviato di Satana? Sono state fatte molte ipotesi: ad esempio, qualcuno ritiene che Paolo si riferisca a una forte tentazione, altri a una vessazione demoniaca, altri a una malattia…  Nessuno può dirlo con certezza per il semplice fatto che Paolo non l’ha voluto precisare né qui né altrove, forse anche per dare la possibilità al lettore di identificarsi, perché in fondo ognuno di noi ha “la propria spina nella carne”.

Ciò che sappiamo è che un grande santo come lui, nonostante una supplica insistente (quel “tre volte” indica simbolicamente una preghiera portata avanti per molto tempo), non è stato esaudito. O meglio: il Signore l’ha esaudito, come spesso fa, in modo inaspettato: gli ha dato la luce per comprendere il valore di quel suo “punto debole”: «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”».  

In altre parole, il Signore ha detto a Paolo: «Questa debolezza ti aiuterà a mantenerti umile e a contare non su te stesso, ma sull’aiuto della mia grazia! Quando ti senti debole, appoggiati sulla mia grazia e allora sarai veramente forte, perché sperimenterai la forza del mio Spirito!»

La vera forza e la vera ricchezza sta quindi nella fiducia in Dio, non nelle qualità naturali. Nel Salmo di oggi si legge: «I leoni – cioè coloro che confidano nella propria forza – sono miseri e affamati, ma a chi cerca il Signore non manca alcun bene».

Tutto questo è espresso in modo magnifico nel vangelo odierno, il “vangelo della Provvidenza”, che è un potente antidoto a tutte le nostre ansie! Gesù ci ricorda che se davvero crediamo in un Dio che è Padre, che veste i gigli dei campi e nutre gli uccelli del cielo, non ha senso che ci lasciamo assalire dall’ansia per il domani! Dovremmo, invece, semplicemente cercare ogni giorno «il regno di Dio e la sua giustizia», cioè cercare di piacere a Dio… il resto ci sarà «dato in aggiunta»!

Un’immagine che riassume la Parola di oggi ci può accompagnare in questa giornata: quella che ci ha donato la Santa Teresa di Lisieux nel suo diario:

 «Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po’ di piuma lieve; non sono un’aquila, ho dell’aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell’Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell’aquila… La mia audacia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell’Amore con le ali stesse dell’Aquila divina…» (Storia di un’anima, nn. 261.264).

don Francesco Pedrazzi

 Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

 

Giobbe conosce il Signore mentre gli parla «in mezzo all’uragano». Infatti, esclama: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (cf. Gb 38,1; 42,5)

Così avviene ai discepoli di Gesù nel brano evangelico di questa domenica. «Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”».

Lo chiamano “Maestro” perché fino a poco prima egli era per loro colui che insegnava i segreti del Regno di Dio in parabole. Ma è per mezzo di questa esperienza drammatica che essi acquisiscono una nuova conoscenza di Gesù: intuiscono che Dio stesso opera in Lui, perché nessuno se non Dio soltanto può comandare al mare.

È interessante qui il parallelismo con il primo intervento straordinario di Gesù nel Vangelo di Marco: un esorcismo nella sinagoga di Cafarnao. Il comando allo spirito impuro è lo stesso che rivolge al vento: «Taci!». Si legge nella prima lettura, dal libro di Giobbe: «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Dio pone quindi un limite invalicabile alla potenza mortifera di satana. 

Il mare è un simbolo delle forze del male che insidiano la nostra vita.

Ci sono momenti in cui abbiamo l’impressione di affondare. In cui il male pare prendere il sopravvento. Dio non interviene, sembra che dorma. Ed è in quei momenti che scaturisce dal nostro cuore il grido di fede più bello e accorato: «…non t’importa che siamo perduti?». Dio ha bisogno del nostro grido per intervenire. Non perché non sappia che siamo in pericolo, ma perché la sua grazia non può operare senza il desiderio umano. I cerbiatti quando rimangono soli e avvertono il minimo pericolo fanno un verso, simile a un forte miagolio, per richiamare l’attenzione della mamma e la mamma subito viene in loro aiuto. Così, quando nelle tempeste della vita gridiamo verso Dio, egli non ci lascia mancare il suo soccorso paterno. Non solo: proprio grazie al nostro grido di fede “in mezzo alla tempesta” possiamo approfondire la conoscenza del vero volto di Dio. È in mezzo alle grandi prove della vita che noi possiamo maggiormente crescere nella fede e nella conoscenza di Dio!

Gesù rimprovera i discepoli dicendo loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».  Avere fede è sapere che la propria vita riposa nelle mani di Dio, che non ci può accadere nulla di male, perché il peggiore dei mali, la morte, è stato vinto da Cristo.

La fede nasce dall’esperienza di essere amati follemente da Dio in Cristo. Come scrive san Paolo: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Se Cristo mi ha amato fino a morire per me, di che cosa devo avere paura? Sono ormai una creatura nuova. Come direbbe la Serva di Dio Chiara Corbella: «Siamo nati e non moriremo mai più». È morto l’uomo carnale, è nato l’uomo spirituale.

È in questo orizzonte che possiamo comprendere le stupende parole di Paolo, nella seconda lettura di oggi: «Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro…., se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove!».

È passato il tempo della paura. È iniziato il tempo della fede!

don Francesco Pedrazzi

Gen 12,1-9; Sal 32; Mt 7,1-5

Per tre settimane la liturgia ci farà leggere, nella prima lettura, il libro della Genesi, a partire dal capitolo dodicesimo, la chiamata di Abramo.

L’Antico Testamento è come un codice segreto il cui significato può essere compreso solo alla luce del Nuovo Testamento.

San Paolo afferma che Abramo venne considerato giusto da Dio per la sua fede, non per meriti dovuti alle sue opere (cf. Rm 4,2-3). Se la fede è autentica, da essa scaturiscono anche opere di amore, perché, come scrive san Giacomo, «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Ma le opere da sole non salvano, perché possono scaturire anche dall’orgoglio umano!

Per spiegare che cos’è la fede, la Lettera agli Ebrei fa riferimento proprio al racconto di oggi, la chiamata di Abramo. Si legge: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).

Ecco le due colonne portanti della fede: 1) la chiamata di Dio, del tutto gratuita e immeritata, che noi abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Confermazione; 2) la risposta dell’uomo nella forma dell’obbedienza (a Dio e ai suoi rappresentanti): «obbedì partendo per un luogo …senza sapere dove andava». Una traduzione forse più corretta dell’invito di Dio dovrebbe essere – come fanno notare alcuni biblisti – non «Vattene!» (dalla tua terra), ma «Parti per te!», cioè parti per il tuo bene. L’obbedienza consiste nell’aderire alla parola di Dio, senza mettere davanti il nostro giudizio, cioè anche quando non la comprendiamo pienamente, anche quando non sappiamo dove Dio voglia condurci, semplicemente confidando nella certezza che Dio ci ama e che ci conduce verso il nostro vero bene!

Immaginiamo un bambino che parte per un viaggio col proprio papà, che non gli dice in anticipo dove lo condurrà: è una sorpresa! Ma il bambino è felice perché sa che suo padre gli vuole bene e non potrà che condurlo in un posto bellissimo. Perciò si lascia prendere per mano, si lascia condurre, con gioia e fiducia, anche se deve attraversare sentieri stretti e ripidi… Questo vuol dire avere fede!

Il contrario della fede è il mettersi al posto di Dio: il giudicare la vita e gli altri dall’alto, con superbia, al posto di Dio! Per questo chi giudica il fratello ha poca fede o non ne ha per niente.

Gesù, nel vangelo di oggi, è perentorio: «Non giudicate, per non essere giudicati!»

Chi ha fede sa che ogni fratello è stato messo da Dio sulla sua strada perché sia amato, non giudicato.  Nel Vangelo il verbo “giudicare” è il contrario del verbo “amare”.  Se abbiamo fede, affidiamo a Dio anche le persone che ci hanno fatto del male o che sbagliano. Possiamo anche decidere di correggerle fraternamente (cf. Mt 18,15), ma solo se si tratta di un difetto che Dio ci ha aiutato a superare, altrimenti meritiamo il rimprovero di Gesù: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».

Oggi lasciamoci prendere per mano con fede dal Padre e guardiamo ad ogni persona come a un fratello o a una sorella da amare, non da giudicare. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Gen 13,2.5-18; Sal 14; Mt 7,6.12-14

Anche nel racconto di oggi Abramo è un modello di fede. La fede, infatti, riguarda non solo il rapporto con Dio, ma altresì il modo con cui ci rapportiamo con il prossimo e con i beni materiali. Gesù lo afferma chiaramente: dobbiamo scegliere in questa vita se credere in Dio o nelle ricchezze. Non possiamo servire al tempo stesso due padroni. «Non si può servire Dio e Mammona!» (cf. Lc 16,13).

Chi pone la ricchezza, i beni e i piaceri del mondo al posto di Dio finisce con il compromettere anche il rapporto con il prossimo. Capita, infatti, che due familiari non si parlino più per un pezzo di terra o per qualche migliaio di euro… Che stoltezza! Come si può pensare che il denaro sia più importante di un fratello?

Abramo non cade in questa tentazione. Egli era molto ricco, come lo era suo nipote Lot, e quando si rende conto che questa ricchezza comincia a causare rivalità tra le due famiglie, decide di dividere il territorio in cui abitavano e di lasciare al nipote il privilegio di scegliere la sua parte. «Allora Lot – si legge nel racconto – alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte…  Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano…».

Il nipote sceglie quindi la terra fertile e lascia ad Abramo quella più arida. Secondo i canoni mondani, Abramo è stato uno sprovveduto, perché non ha fatto i propri interessi… In realtà, davanti a Dio ha agito con saggezza, perché ha custodito il tesoro più importante: la comunione con il nipote. Per questo la benedizione di Dio è rimasta su di lui. Viceversa, la scelta opportunista di Lot si rivelerà alla fine insipiente.

Nel vangelo di oggi Gesù dice: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!».

Lot ha scelto la via larga e spaziosa, sulla quale però alla fine molti dei suoi familiari hanno trovato la morte, perché nel territorio da lui scelto sorgevano le città di Sodoma e Gomorra, i cui abitanti «peccavano molto contro il Signore». Molti membri del clan di Lot si erano lasciati traviare dai costumi perversi dei sodomiti. Ora – come scrive san Paolo – «il salario del peccato è la morte!» (Rm 6,23), da intendere anche e soprattutto come morte spirituale, e soltanto Lot e pochi altri familiari sono risparmiati – anche grazie all’intercessione di Abramo (cf. Gn 18) – perché si mantengono giusti.

Pur essendo vissuto quasi duemila anni prima di Gesù, Abramo mette in pratica la sua regola d’oro, che riassume tutto l’insegnamento della Bibbia: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro!».  

È la strada dell’amore crocifisso, una strada stretta e angusta, che comporta a volte grandi sacrifici. Ma non esitiamo a percorrerla ogni giorno perché è una strada benedetta: meglio una strada impervia che porta alla vita, che una strada facile che porta alla perdizione!

don Francesco Pedrazzi

Gen 15,1-12.17-18; Sal 104; Mt 7,15-20

 

Il cammino di fede di Abramo non è privo di ostacoli. Pur avendo risposto prontamente alla chiamata del Signore, si trova poi ad affrontare prove e tentazioni, molte delle quali non sono riportate nei testi liturgici.

Nella prima lettura di oggi, il patriarca, ormai anziano, è in preda a un dubbio circa la numerosa discendenza che Dio gli aveva promesso. Pensava: «Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco… un mio domestico».

«Gli fu pertanto rivolta questa parola dal Signore: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”. Poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia».

Il miglior commento a questo passo sono le parole di San Paolo nella lettera ai Romani: «Abramo credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli… Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo … e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia» (Rm 4,18-22).

In altre parole: ciò che ha reso Abramo un giusto, un “santo”, è il suo rimanere saldo contro ogni speranza umana, appoggiandosi sulla fede nella divina potenza, non sul proprio giudizio umano.  

La fede è un cammino irto di ostacoli anche per noi e uno degli ostacoli più insidiosi è rappresentato dai falsi profeti, da cui Gesù ci mette in guardia nel vangelo di oggi. Essi vengono a noi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li possiamo riconoscere.

Un “cattivo frutto” prodotto dai falsi profeti è la tendenza ad annacquare la legge di Dio. «Sono cambiati i tempi – dicono – questo non è più peccato! Il Signore guarda solo se siamo buoni, se facciamo il bene agli altri!». Oppure: «Non stare ad ascoltare quello che dicono i vescovi e i preti, l’importante è seguire la propria coscienza…». E così, i falsi profeti di oggi, con parole suadenti, e compiacendo la mentalità individualista del nostro tempo, allontanano i fedeli dalla comunione con i pastori della Chiesa e con Cristo.

Dio ci parla, come ha parlato ad Abramo, e lo fa prima di tutto mediante una Parola mediata autorevolmente della sua Santa Chiesa. Questa è la roccia sicura contro cui le potenze degli inferi non prevarranno. La Chiesa, cioè l’insieme dei santi di ieri e di oggi, è quel cielo stellato che siamo invitati a contemplare con profondo senso di meraviglia, e che ci testimonia che vale sempre la pena fidarsi di Dio. Nei momenti di dubbio il Signore ci conduce fuori e dice ad ognuno di noi:  «…conta le stelle, se ci riesci!».

don Francesco Pedrazzi

Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

 

Dio è misericordioso”. Questo è il significato del nome “Giovanni”. Una misericordia che si manifesta nella nascita insperata di un figlio a lungo atteso. Una misericordia che – come proclama il padre Zaccaria, nel suo solenne cantico di benedizione – si manifesta soprattutto in «un Sole che sorge dall’alto, per rischiare quelli che stanno nelle tenebre», cioè che non conoscono il vero Dio, e per dirigere i passi di Israele «sulla via della pace» (cf. Lc 1,78-79).

«Principio della sapienza è il timore del Signore» (Pro 9,10). «Il timore del Signore vale più di ogni cosa… è inizio di amore per Lui» (Sir 25,11-12). Questo si legge nei libri sapienziali. San Giovanni Battista è inviato per disporre il popolo di Israele nel “timore del Signore”: il timore che precede l’Amore.

Nel vangelo di Luca, l’annunciazione e la nascita del Battista precedono l’annunciazione e la nascita del Salvatore. È quanto dire: per accogliere Gesù bisogna passare da Giovanni. Come hanno fatto i primi discepoli.

Come un campo viene arato e concimato prima di ricevere il seme, così il nostro cuore non può accogliere Gesù, la Parola del Dio vivente, se non rimuove ogni compromesso con il peccato. Questo è il timore di Dio! Perché non si ama Dio se non si odia il peccato.

Nella Chiesa primitiva questo principio guidava il cammino per diventare cristiani: il catecumenato. Un percorso di almeno due anni, in cui era necessario lasciarsi alle spalle ogni comportamento pagano e peccaminoso. Tertulliano giunge ad affermare: «Non siamo immersi nell’acqua per porre fine ai nostri peccati, ma perché vi abbiamo in precedenza già posto fine, ci siamo già moralmente lavati» (De paenitentia 6,17).

Giovanni proclama «un battesimo di conversione» per il perdono dei peccati, preparando il terreno per accogliere il vangelo della Grazia e della misericordia. «Il Signore dal seno materno» lo ha chiamato, come si legge nella prima lettura. Ma queste parole valgono anche per noi. Anche noi siamo chiamati dal giorno del nostro Battesimo a divenire precursori di Cristo. La nostra missione non è attirare gli altri a noi, ma fare di tutto perché gli altri possano incontrare la misericordia di Dio in Gesù. Ma come potremo noi annunciare con frutto Gesù se non siamo “timorati di Dio”, cioè se non lo abbiamo ancora scelto come unico Signore della nostra vita, ponendo fine ai peccati volontari?

Abbiamo perciò bisogno continuamente di lasciarci scuotere dalle parole del Battista: «Fate frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”», che – tradotto per noi – significa: «Smettete di peccare e non cominciate a dire: siamo cristiani e crediamo che Dio è un Padre buono e quindi pecchiamo pure, che tanto poi ci perdona!». «Perché – ammonisce il precursore – la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (cf. Lc 3,8-9).

«Abbi pietà di noi, Signore, Dio dell’universo, e guarda, infondi su di noi il tuo timore, perché possiamo proclamare la tua misericordia. Amen!» (cf. Sir 36,1-2).

don Francesco Pedrazzi

Gen 17,1.9-10.15-22; Sal 127; Mt 8,1-4

Nella prima lettura di oggi, Dio parla ad Abramo e gli ribadisce che il figlio dell’alleanza non è Ismaele, figlio della schiava Agar, ma colui che nascerà dalla moglie Sara e che egli chiamerà Isacco.

San Paolo scrive: «Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora, queste cose sono dette per allegoria: le due donne, infatti, rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar… invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi… Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma della donna libera» (Gal 4,22-24.26-31).

La “donna libera” che ci ha generati nella vita di fede tramite il Battesimo è la santa madre Chiesa. Nella maternità della Chiesa riconosciamo altresì la maternità della Vergine Maria, «icona e inizio della Chiesa» (Lumen gentium n. 68). Maria è nostra Madre perché  “Madre della Chiesa”: è colei che – come insegna il Concilio Vaticano II – dopo aver generato il Capo del Corpo ecclesiale, che è Cristo, coopera incessantemente alla generazione delle sue membra, che siamo noi (cf. Lumen gentium  n. 63).

Chi ama veramente la Vergine Maria non può pertanto non amare anche la Chiesa, di cui Maria è Madre. Questo è un criterio di discernimento importante per distinguere lo spirito di Dio dallo spirito del male, ad esempio nel campo delle apparizioni mariane. Chi invita a disobbedire e ad allontanarsi dai pastori della Chiesa certamente non parla in nome di Cristo e della Chiesa! Si tratta piuttosto del demonio mascherato da “angelo di luce”, come scrive san Paolo (cf. 2Cor 11,14).

Tutti i santi hanno insegnato ad amare la Madre Chiesa, anche quando hanno subito ingiuste prove e persecuzioni da parte dei suoi rappresentanti. Come nel caso di Padre Pio, che invitava a non “gettare fango” sulla Madre per difendere il figlio.

San Luigi Orione, in una lettera dell’11 luglio 1933, prese posizione contro chi aveva nel cuore di accusare pubblicamente alcuni pastori della Chiesa per difendere Padre Pio. Ecco le sue parole di fuoco: «Guai a chi si erige giudice di sua Madre e la trascina sul banco degli accusati! Guai a chi si alza a giudicare la Madre Chiesa e la affligge: maledictus a Deo qui exasperat Matrem! Non sono mai stato a San Giovanni Rotondo, né ho mai scritto a padre Pio, ma non dubito che egli deplorerebbe nel modo più forte l’azione ignobile che voi state per compiere».

«Signore, se vuoi, puoi purificarmi», dice il lebbroso a Gesù nel vangelo odierno. Chiediamo a Gesù che purifichi le nostre mani se abbiamo gettato fango contro i fratelli e contro la Madre Chiesa. Chiediamo che purifichi le nostre lingue e i nostri cuori, perché possiamo davvero amare la Sposa di Cristo e aiutare altri ad amarla, perché – come si legge nel Siracide – «chi onora sua madre è come chi accumula tesori» (Sir 3,4). Amen.

 

Nella prima lettura di oggi, Dio parla ad Abramo e gli ribadisce che il figlio dell’alleanza non è Ismaele, figlio della schiava Agar, ma colui che nascerà dalla moglie Sara e che egli chiamerà Isacco.

San Paolo scrive: «Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora, queste cose sono dette per allegoria: le due donne, infatti, rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar… invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi… Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma della donna libera» (Gal 4,22-24.26-31).

La “donna libera” che ci ha generati nella vita di fede tramite il Battesimo è la santa madre Chiesa. In essa, riconosciamo un’altra maternità, quella della Vergine Maria, in quanto primizia e icona della Chiesa. Maria è nostra Madre perché  “Madre della Chiesa”: colei che – come insegna il Concilio Vaticano II – dopo aver generato il Capo del Corpo ecclesiale, che è Cristo, coopera incessantemente alla generazione delle sue membra, che siamo noi (cf. Lumen gentium  n. 63).

Chi ama veramente la Vergine Maria non può pertanto non amare anche la Chiesa, di cui Maria è Madre. Questo è un criterio di discernimento importante per distinguere lo spirito di Dio e lo spirito del male, ad esempio nel campo delle apparizioni mariane. Chi invita a disobbedire e ad allontanarsi dai pastori della Chiesa certamente non parla in nome di Cristo e della sua Madre celeste!

Tutti i santi hanno insegnato ad amare la Madre Chiesa, anche quando hanno subito prove e persecuzioni da parte dei suoi rappresentanti. Come nel caso di Padre Pio, che invitava a non “gettare fango” sulla Madre per difendere il figlio. San Luigi Orione, in una lettera dell’11 luglio 1933, prese posizione contro chi aveva nel cuore di accusare pubblicamente la Chiesa per difendere Padre Pio.

Ecco le sue parole di fuoco: «Guai a chi si erige giudice di sua Madre e la trascina sul banco degli accusati! Guai a chi si alza a giudicare la Madre Chiesa e la affligge: maledictus a Deo qui exasperat Matrem! Non sono mai stato a San Giovanni Rotondo, né ho mai scritto a padre Pio, ma non dubito che egli deplorerebbe nel modo più forte l’azione ignobile che voi state per compiere».

«Signore, se vuoi, puoi purificarmi», dice il lebbroso a Gesù nel vangelo odierno.

Chiediamo a Gesù che purifichi le nostre mani se abbiamo gettato fango contro i fratelli e contro la Madre Chiesa. Chiediamo che purifichi le nostre lingue e i nostri cuori, perché possiamo davvero amare la Sposa di Cristo e aiutare i fratelli ad amarla, perché – come si legge nel Siracide – «chi onora sua madre è come chi accumula tesori» (Sir 3,4). Amen

don Francesco Pedrazzi

Gen 18,1-15; Lc 1,46-55; Mt 8,5-17

Abramo riceve la visita di tre personaggi misteriosi, nella sua dimora presso le Querce di Mamre. La sua umiltà e accoglienza sono esemplari. Colpisce il fatto che si rivolga ai tre come se si rivolgesse a uno solo, come se si rivolgesse a Dio stesso: «Mio signore, – esclama – se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo!».

E i tre, parlando come uno solo, gli preannunciano la nascita del figlio della promessa: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». La promessa si compie nonostante lo scetticismo di Sara, che dall’ingresso della tenda aveva ascoltato quelle parole e aveva “riso dentro di sé”.

Questo brano, letto a partire dal vangelo, lascia intravedere il mistero più grande della nostra fede: la Santissima Trinità. Un solo Dio in tre persone: un solo Dio che è comunione di amore del Padre con il Figlio e nello Spirito Santo.  

Ancora una volta Abramo ci è presentato come modello di fede, perché accogliendo i tre pellegrini nella propria tenda, accoglie Dio stesso e l’accoglienza di Dio ha come conseguenza la benedizione più grande: la nascita del figlio atteso da una vita. La fede di Abramo trova compimento in quella di Maria: l’umile ancella che accoglie la Parola di Dio e la mette in pratica e proprio per questo concepisce nel suo grembo il Salvatore.

L’atteggiamento di profonda umiltà nell’accoglienza di Dio e dei fratelli è un segno esteriore di una “fede grande”.

Nel vangelo di oggi, infatti, Gesù loda la grande fede del centurione perché si ritiene indegno di ospitarlo nella propria cosa, oltre che per la fiducia nella potenza della sua parola: «Di’ soltanto una parola – esclama – e il mio servo sarà guarito!».

Ogni giorno ci è dato il dono immenso di accogliere Gesù, l’Ospite divino, nella nostra casa, grazie alla Santissima Eucaristia. Prima di riceverlo la liturgia ci fa ripetere queste parole del centurione, ma noi siamo davvero consapevoli di essere indegni di ricevere questo sacramento? Lo accogliamo in tutta umiltà e confidando nella potenza guaritrice della sua Parola?

Dopo ogni Comunione san Tommaso d’Aquino pregava con queste parole: «Ti rendo grazie, o Signore … perché ti sei degnato di saziare me peccatore e indegno tuo servo … non per mio merito, ma solo per la tua misericordia. Ti supplico ora, perché la Comunione non mi sia causa di condanna …. Mi liberi dai vizi, mi difenda contro tutte le cattive inclinazioni, e accresca in me … tutte le altre virtù».

Quanta umiltà! Quanta fiducia! Quanta fede!

I santi più grandi sono indubbiamente quelli più umili! Il santo di oggi, san Josemaria Escrivà, diceva spesso che la grandezza di san Giuseppe era dovuta alla sua piccolezza. Scriveva: «Giuseppe poteva far sue le parole di Maria, sua sposa: Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, perché ha guardato la mia piccolezza (cfr Lc 1, 48-49)» (È Gesù che passa, n. 40).

Come quando si cammina lungo un sentiero di montagna e lo sguardo è attirato dalla bellezza dei piccoli fiori cresciuti tra le rocce, così lo sguardo di Dio è attirato e conquistato dalla bellezza dei cuori umili, piccoli, che pur vivendo di stenti, magnificano il Signore accogliendo la sua Parola e proclamano la sua lode

don Francesco Pedrazzi

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Due racconti incastonati, quello di Giairo, il capo della sinagoga, che chiede a Gesù la guarigione della figlia che sta morendo, e quello di una donna senza nome, che desidera la propria guarigione da una malattia incurabile e che tocca il mantello di Gesù da dietro, per non farsi notare dalla folla. Due vicende apparentemente molto diverse; eppure, se questi racconti sono incastonati l’uno nell’altro è perché si illuminano a vicenda su un tema comune.   

L’uomo si getta ai piedi di Gesù e non teme di mostrarsi alla folla mentre intercede per la figlioletta malata. La donna emorroissa ha evidentemente una ferita nel cuore, oltre che nel corpo, perché si vergoGna di chiedere pubblicamente a Gesù di essere guarita. Giairo chiede per la figlia, la donna chiede per sé. La donna è guarita all’istante, mentre la salute della bambina peggiora drammaticamente dopo la preghiera del padre, anzi gli riferiscono che è morta.

Notiamo che sia la guarigione della donna che la risurrezione della fanciulla avvengono in forza di un “tocco”, un contatto con la persona di Gesù: nel primo caso è la donna che tocca Gesù, senza che egli ne sia consapevole; nel secondo caso è Gesù che prende per mano la bambina.

La donna che tocca la frangia del mantello di Gesù, in realtà gli tocca il cuore per la sua profonda umiltà e Gesù le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata!». Anche a Giairo Gesù dice: «Non temere, soltanto abbi fede

Il tema che accomuna i due racconti è quindi quello della fede in Gesù. È Gesù che opera, ma grazie alla fede del padre e della donna. La fede è un grido dell’anima che permette un contatto del nostro cuore con quello di Cristo, un contatto che apporta guarigione e vita.

Quando ci accostiamo alla Comunione eucaristica non tocchiamo solo la frangia del mantello di Gesù: tutta la sua Persona si dona a noi come vero cibo! Eppure, non è scontato che tocchiamo il suo Cuore! Ciò che fa la differenza è la fede. Anche la folla tocca Gesù, ma solo la donna viene guarita. Non basta ricevere il Sacramento per ottenere frutti di guarigione e liberazione. Chiediamoci se, quando ci accostiamo a Gesù, crediamo veramente al suo Amore per noi, crediamo che Egli vuole e può guarirci! Chiediamoci se crediamo davvero – come già annunciava il libro della Sapienza, nella prima lettura di questa domenica – che «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi», «ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono». In questo libro si legge anche: «non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani» (1,12). E un catechismo della Chiesa antica insegnava: «Due sono le vie, una della vita e una della morte, e fra queste due vie la differenza è grande» (Didaché 1,1).

La fede ha perciò a che fare con la nostra libertà: è scegliere di credere alla Bontà di Dio per noi e cercare soltanto in Lui, non nei mezzi umani, la vita piena e la liberazione dal male, rifiutando tutte le strade contrarie ai suoi comandamenti, perché su di esse si trova solo morte e perdizione.

Signore, accresci la nostra fede. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Gen 18,16-33; Sal 102; Mt 8,18-22

Il Signore dice ad Abramo: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave!». Il testo non precisa di quale peccato si siano macchiati gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Troviamo una chiave di lettura nel Nuovo Testamento, nella Lettera di Giuda, dove si legge: «Sòdoma e Gomorra e le città vicine, si abbandonarono all’immoralità e seguirono vizi contro natura…». Il racconto, in alcuni passaggi omessi dai testi liturgici, allude a un comportamento depravato nei confronti degli ospiti inviati da Dio. Infatti, i tre misteriosi pellegrini arrivano in città e gli abitanti dicono a Lot: «Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!». È evidente il contrasto tra l’umile accoglienza di Abramo e la mancanza di rispetto e di accoglienza da parte degli abitanti di Sodoma. La depravazione morale si traduce quindi in un peccato contro la carità e l’accoglienza.

Abramo intercede presso Dio perché perdoni i peccati degli abitanti di quella città, dove si erano trasferiti anche i membri del clan del nipote Lot. Dio risponde ad Abramo che se si trovassero anche solo dieci giusti in quella città, essa sarebbe risparmiata per riguardo a quei giusti. Ma quei dieci giusti non li ha trovati… I tre uomini permettono solo a Lot, alla moglie e alle due figlie di uscire dalla città, prima della sua distruzione.

Il fuoco che divora la città rimanda al fuoco delle “passioni ingannevoli” (cf. Ef 4,22) che “snaturano” l’uomo, lo rendono schiavo dei propri istinti e gli impediscono di accogliere e servire con purezza e rispetto i fratelli che Dio mette sul proprio cammino. Dio può salvare da questo fuoco solo se c’è una volontà di conversione, perché non può mai agire contro la libertà umana. Nondimeno, il racconto ci fa capire che Egli è in grado di salvare i peccatori grazie all’intercessione dei giusti. Vengono in mente quelle drammatiche parole che disse la Santa Vergine ai Pastorelli di Fatima, ai quali aveva mostrato l’inferno: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori, perché molte anime vanno all’inferno, perché non c’è chi si sacrifica e prega per loro».

È una parola dura ed esigente, come quella del vangelo di oggi, in cui Gesù chiede, a chi intende seguirlo, una disponibilità di base ad abbandonare ogni sicurezza, anche quella rappresentata da una dimora stabile o dai legami familiari.

I testi di oggi ci ricordano che la vita è sì un dono meraviglioso, ma anche una realtà molto seria. Non è una favola con un lieto fine già scritto! Il lieto fine dipende da noi, perché – come scriveva sant’Agostino – “Dio che ci ha creato senza di noi, non può salvarci senza di noi” [Cf. Sermo CLXIX, 13]. Possiamo certamente credere a un lieto fine se ci sforziamo di mettere Dio al primo posto, se torniamo a Lui con cuore pentito, se crediamo al suo Amore per noi.

Come la rugiada del mattino rinfresca i fiori e l’erba, il Salmo di oggi, il 102, dona un po’ di refrigerio al cuore, proclamando la bontà e la tenerezza di Dio per quanti lo temono: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore!». 

don Francesco Pedrazzi

At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

«Mentre Pietro era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui», si legge nella prima lettura, nella solennità dei Santi Pietro e Paolo.

Pietro viene liberato miracolosamente. Ci viene qui ricordato il primo modo con cui ogni fedele si deve rapportare con Pietro e i suoi successori: la preghiera. Pregare continuamente per il Santo Padre perché sia liberato dalle catene imposte dalle potenze degli inferi.
Gesù assicura che le potenze degli inferi non prevarranno mai sulla Chiesa, ma lascia intendere anche che la barca di Pietro sarebbe stata costantemente insidiata da satana. Viene da pensare a quelle parole di Benedetto XVI nella celebre meditazione del Venerdì Santo del 2005: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. … La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole… Abbi pietà della tua Chiesa…. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi!».

Ecco un secondo modo di porci dinanzi a Pietro e alla Chiesa, indicato da Benedetto XVI: se le cose non vanno bene non accusiamo, non giudichiamo i pastori, ma ognuno guardi prima di tutto ai propri peccati, con cui macchia la Chiesa. Una cosa sola dobbiamo fare: santificarci, vivendo eroicamente le più grandi virtù cristiane: l’umiltà, l’obbedienza, la pazienza e la carità.

«Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede», esclama Paolo nella seconda lettura. La fede della Chiesa non verrà mai meno, ma non è detto che non venga meno la fede dei singoli battezzati. Paolo ha conservato la fede anche perché si è sempre preoccupato di camminare in comunione con Pietro. Come scrive nella lettera ai Galati, sottopone la sua opera a Pietro e agli altri apostoli «per non rischiare di «correre invano» (cf. Gal 2,2).

L’unica garanzia che le potenze degli inferi non prevalgano nella nostra vita è la nostra comunione con Pietro. Cristo è il buon Pastore che ci difende dai lupi ma lo fa se rimaniamo nel gregge di Pietro. Al di fuori di esso, non ci sono altri buoni pastori, solo mercenari, che agiscono per i propri interessi.

In una memorabile omelia, San Paolo VI esortava i fedeli con queste parole: «Amate la Chiesa, anche per i suoi difetti, che sono i bisogni che la Chiesa ha. Ma soprattutto amatela perché davvero nasconde Cristo e dà Cristo (…). Ed è per questo che io sono, come Santa Caterina, folle d’amore per la Chiesa» (Omelia nella parrocchia di San Luigi Grignion de Montfort, 7 marzo 1971).

I veri santi li si distingue dai falsi santerelli perché sono folli d’amore per la Chiesa!
Signore, accresci in noi l’amore per la madre Chiesa. Amen!

don Francesco Pedrazzi

 Gen 21,5.8-20; Sal 33; Mt 8,28-34

A motivo dell’insofferenza della moglie Sara, Abramo manda via dalla propria abitazione Agar e il figlio Ismaele. Essi si inoltrano nel deserto e la situazione si fa ben presto drammatica, perché l’acqua viene a mancare. Il Signore ode la voce di Ismaele e il pianto di Agar, che diceva tra sé: «Non voglio veder morire il fanciullo!». «Le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d’acqua». E grazie a quel pozzo poterono sopravvivere.

La disperazione impediva ad Agar di vedere il pozzo d’acqua. Quando le cose vanno male, il tentatore vuole farci credere che siamo davanti a un vicolo cieco per gettarci nella disperazione. La grazia di Dio, invece, ci mostra sempre una risorsa di vita anche laddove umanamente sembra che ci sia solo il deserto!

Come proclama il Salmo di oggi: «Il Signore ascolta il grido del povero, lo salva da tutte le sue angosce».

Non sempre sappiamo riconoscere l’opera liberatrice di Dio, perché facciamo prevalere gli interessi mondani a quelli che riguardano la sfera spirituale.

È quanto accade nell’episodio della liberazione dei due indemoniati nel paese dei Gadarèni, riportato nel vangelo di oggi. Gesù li fa passare dal regno dei morti al regno dei viventi, ma i mandriani e gli abitanti di quel paese, maggiormente preoccupati della perdita economica causata dai porci precipitati dalla rupe, gli chiedono di allontanarsi dal loro territorio.

«Niente anteporre all’amore di Cristo», scriveva san Benedetto nella sua Regola.

Donaci, Signore, di non anteporre nulla e nessuno al tuo amore e di cercare ogni giorno in Te la sorgente della vita. Amen.

don Francesco Pedrazzi

 Gen 22,1-19; Sal 114; Mt 9,1-8

I biblisti fanno notare che, stando al significato letterale del testo, Dio non chiede in modo esplicito ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, ma di “farlo salire” con lui sul monte per l’olocausto. Nell’antichità era diffusa la pratica abominevole del sacrificio dei figli per ingraziarsi le divinità. Abramo ha certamente interpretato in tal senso il comando di Dio; infatti, «stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio», ma l’angelo del Signore lo fermò.

In questo modo, Dio fa capire ad Abramo che Egli è diverso dagli altri falsi dèi sanguinari, dietro i quali in realtà si maschera satana, “l’omicida fin dal principio” (cf. Gv 8,44). Egli è il “Dio della vita“, che – come avrebbe detto tramite Mosè – vieta l’omicidio e aborrisce la pratica dell’olocausto dei figli (cf. Lv 18,21). Egli benedice Abramo perché si dimostra pronto a consegnare tutto se stesso, donandogli il figlio in cui riponeva tutte le proprie speranze.

Nella lettera agli Ebrei si legge: «Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe come simbolo» (Eb 11,17-19).

È indubbiamente il più grande atto di fede di Abramo: egli si fida anche se non capisce il senso di ciò che Dio gli sta chiedendo. Spera contro ogni speranza, come Maria ai piedi della croce. «Per questo lo riebbe come un simbolo», nel senso che Isacco rimanda simbolicamente a Cristo, il Figlio unigenito che Dio non ha «risparmiato», che ha consegnato per la nostra salvezza, ma che ha riavuto nella gloria della risurrezione. San Paolo esclama: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32).

Dio «non toglie nulla, e dona tutto», disse Benedetto XVI in una sua omelia (24 aprile 2005, santa Messa di inizio del Pontificato). Anche quando sembra che ci tolga qualcosa o qualcuno, in realtà si tratta di una perdita solo apparente e momentanea, perché – scriveva Agostino – non si può perdere coloro che amiamo in Dio, che non si può perdere (cfr. Confessioni 4, 9, 14).

È vero, siamo peccatori, ma confidiamo nella sua misericordia! «Chi potrà strapparci dal suo perdono?», dice un canto liturgico. Egli è sempre pronto a ripetere le parole che nel vangelo di oggi dice al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati!… Alzati, e cammina!»

Come quando, in un’escursione in montagna, arrivati a un passaggio pericoloso chi ci sta davanti ci tende la mano per aiutarci e darci sicurezza, così Dio ha sempre una mano tesa verso di noi, perché possiamo affrontare con fiducia gli ostacoli della vita.

Ci chiede solo di non dubitare del suo Amore, perché «Cristo non toglie nulla, e dona tutto!»

don Francesco Pedrazzi

Gen 23,1-4.19; 24,1-8.62-67; Sal 105; Mt 9,9-13

Dopo la morte della madre Sara, Isacco, tramite il suo servo, incontra e conosce Rebecca, che diverrà sua moglie. Abramo aveva preannunciato al suo servo che il Signore lo avrebbe guidato, per dare a Isacco una moglie tra la sua parentela.

Quanto è accaduto a Isacco accade ad ogni credente. Perché chi si affida a Dio sa che non ci sono incontri casuali nella vita, ma solo incontri provvidenziali. Tutto avviene secondo un piano divino. La moglie e il marito non sono soltanto scelti, ma ricevuti dalle mani di Dio. Così un amico o un’amica, un fratello o una sorella…

E questo vale anche per persone che non camminano sulla strada di Dio, per quelli che sono ritenuti “peccatori”, come ci insegna Gesù nel vangelo di oggi. Egli, infatti, – chiamando Matteo, il pubblicano, e sedendo a mensa con i pubblicani e i peccatori – ci dà l’esempio affinché superiamo qualsiasi barriera morale dinanzi alle persone che Dio mette sul nostro cammino.

«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati», dice. Dovremmo perciò sempre guardare alle persone che sbagliano e che non vivono secondo la legge di Dio, come a persone “malate”, verso cui non possiamo che provare sentimenti di tenerezza e affetto e a cui Dio ci invia per portare l’amore del Cuore di Gesù. A differenza di Gesù, tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che anche noi siamo poveri peccatori: siccome il Signore ci perdona tanto anche noi ci accostiamo in tutta umiltà ai fratelli che incontriamo e non li giudichiamo. Sappiamo di essere indegni strumenti attraverso cui Cristo può ricondurre a sé coloro che mette sul nostro cammino.

Il Signore è il “grande Tessitore”, che intreccia i cammini degli uomini: se siamo docili alla sua Divina volontà, camminando nell’umiltà, nell’obbedienza e nella misericordia, egli farà della nostra vita un arazzo meraviglioso.

don Francesco Pedrazzi

Ef 2,19-22; Sal 116 (117); Gv 20,24-29

Il racconto dell’incontro del Risorto con l’Apostolo Tommaso è uno scrigno di insegnamenti preziosi per la vita di fede.

Sicuramente c’è un profondo significato eucaristico.

Le piaghe che Gesù mostra a Tommaso rimandano al suo Sacrificio d’amore. E la Santa Messa è la celebrazione del Sacrificio d’Amore del Cristo crocifisso e risorto, che incontra la sua Chiesa.

Noi, seppur nella fede, viviamo in ogni celebrazione eucaristica un’esperienza analoga a quella di Tommaso: anzi, per certi versi un’esperienza più grande e intima, perché Gesù ci fa visita, come Pane di Vita, nel nostro cuore e noi corrispondiamo a questo dono immenso e immeritato con il suo stesso atto di adorazione: «Mio Signore e mio Dio!».

È il primo giorno dopo il sabato. Sappiamo quanto è importante vivere questo incontro con il Signore che ci convoca e ci fa visita ogni domenica. Anzi, il cristiano non può vivere senza la Messa domenicale!

Tuttavia, viviamo in tempi in cui è importante sottolineare, come già faceva san Pio X all’inizio del ‘900, che coloro che vogliono davvero mettere Gesù al centro della propria vita non possono accontentarsi di partecipare alla Messa domenicale!

Su questo punto, mettiamoci in ascolto di un gigante tra i maestri di spirito del nostro tempo: San Pio da Pietrelcina.

Egli guidava spiritualmente molte anime attraverso le sue lettere. Ora, colpisce la frequenza e l’insistenza con cui lo stigmatizzato del Gargano raccomanda alle anime da lui accompagnate la Comunione sacramentale quotidiana. Anzi, si dice convinto che il demonio faccia di tutto, nei nostri tempi, per tenere le anime lontane dalla Comunione sacramentale, facendo credere che sia sufficiente la Comunione spirituale. Padre Pio era evidentemente preoccupato per il veleno del giansenismo allora assai diffuso, ma che anche oggi, ahimè, anche per effetto di alcune restrizioni imposte dalla pandemia, sta provocando danni enormi nelle anime, anche quelle più devote.

Ecco alcune esortazioni tratte dal suo epistolario.

Quando Padre Pio viene a sapere dalla sorella Raffaelina che la sua figlia spirituale Giovina aveva cominciato a rarefare la frequenza alla comunione eucaristica se ne rammarica vivamente.

Scrive alla sorella: «Sento continuamente una stretta al cuore per vostra sorella che si accosta così raramente a ricevere Gesù. Una tale condotta … è da chiamare disprezzo, anziché amore per Gesù! Oh! se gli uomini sapessero apprezzare un tal dono, non si vedrebbe di certo un sì scarso numero di comunicanti! I tempi presenti sono assai tristi, ma che fare? O sventurati tempi in cui siamo abbattuti! Preghiamo il pietosissimo Gesù che venga in soccorso della sua Chiesa, poiché le di lei necessità son diventate estreme (II, 79)».

Quindi, per Padre Pio un grave male del proprio tempo (… e chissà cosa direbbe oggi!) che sta devastando la Chiesa è il fatto che le anime si accostano raramente alla Comunione!

Si noti, che questa lettera è del 1914. Nel 1905 san Pio X, in un decreto anti-giansenista, aveva raccomandato la Comunione sacramentale frequente, ma a quanto pare molti fedeli non avevano accolto l’esortazione del Papa!

Raffaelina si sentì quasi offesa della risposta di Padre Pio e gli rispose: «Oh! no! non è disprezzo per Gesù, come voi dite; …. Non la giudicate con rigore, non siate severo con essa, padre santo. La sorella mia è tanto buona; fa la vita di claustrale (II, 84)». E padre Pio una settimana dopo spiega meglio il suo pensiero: «Io non ho mai messo in dubbio essere la sua anima accetta al Signore, vi dicevo solo che vedevo assai di mal’occhio la condotta da lei tenuta verso la mensa eucaristica. In questi tempi così tristi nei quali tante anime fanno apostasia da Dio, non so persuadermi come si possa vivere della vera vita senza il cibo dei forti. In questi tempi … il mezzo sicuro, per mantenerci esenti dal pestifero morbo che ci circonda, è quello di fortificarci col cibo eucaristico. … (II, 92)».

Padre Pio in altre lettere è ancor più esplicito: chiede la Comunione sacramentale quotidiana.

Rivolgendosi a quattro figlie spirituali, il 7 dicembre 1916, riguardo a timori che esse avevano nel fare la Comunione quotidiana, scrive: «Credete a me, che vi parlo da fratello e con l’autorità di sacerdote ed in qualità di vostro direttore: discacciate cotesti vani timori, diradate coteste ombre, le quali va addensando il demonio sull’anime vostre per tormentarvi e allontanarvi dalla comunione quotidiana. …. Mi sono spiegato?».

Per il santo del Gargano è chiaro che il demonio escogita ogni stratagemma pur di allontanare le anime elette dalla Comunione frequente!

Qualche giorno dopo, scrivendo alle stesse figlie spirituali, precisa: «Frequentate la comunione quotidiana, disprezzando sempre i dubbi che sono irragionevoli e confidate nell’ubbidienza cieca ed ilare, non temete d’incontrar male… Dunque, ripeto – perché giova – discacciate i dubbi in nome e nella virtù dell’ubbidienza!».

Si noti che Padre Pio chiede la Comunione frequente per obbedienza, come emerge ancora più chiaramente in un’altra lettera del 26 giugno 1918 a un’altra figlia spirituale: «La sola certezza di trovarti in peccato mortale deve tenerti lontana dalla comunione. Quando sei nel dubbio, fatti l’atto di contrizione e comunicati, e fai ciò per ubbidienza. E questo vale per tutti i casi e per sempre».

Nemmeno il dubbio di essere in peccato mortale dovrebbe portare all’astensione dalla Comunione sacramentale frequente, secondo Padre Pio!

In una lettera successiva le scrive: «Avresti dovuto rammentarti che io ti dissi: finché non sei certa di trovarti in disgrazia di Dio, cioè col peccato mortale nell’anima, non dovevi né potevi astenerti dalla comunione, ma farsi l’atto di contrizione e disporsi ad ubbidire. Guardati bene in seguito dal diportarti come ti sei diportata questa volta, altrimenti ti tratterò come meriti!».

Altro che: «Fai quello che ti senti in coscienza!», come va di moda dire oggi!… Padre Pio non sopporta che un’anima di una sua figlia spirituale si astenga dalla Comunione se non nel caso in cui ha la certezza di avere commesso un peccato mortale!

A un’altra figlia spirituale, Vittorina, scrive: «Hai fatto bene a non tralasciare la comunione per quei vani ed inutili timori che il nemico ti poneva davanti. Sta pur sicura che non si offende Iddio se non quando si conosce essere un’azione peccaminosa, e pur con deliberata e piena volontà ed avvertenza si fa».
In una lettera del 24 gennaio 1919 scrive: «Finché non si è certi di stare in colpa grave, non bisogna astenersi dalla comunione!» Notare: quel perentorio “non bisogna astenersi”…
Infine, alla figlia spirituale Antonietta scrive: «Carissima Antonietta, … Tranquillizzati! Fa’ la santa comunione e non dare retta alle fanfaronate altrui. Quando vedo del male, lo dico io e non mi servo di altre persone per richiamare al dovere. Perciò tranquillizzati!».

Facciamo nostre le parole di questo grande santo pensando a quelle anime turbate dalle “fanfaronate” che si sentono in giro da chi, in nome di fissazioni rituali o di altre ragioni, allontana i fedeli più innamorati di Gesù dall’incontro intimo e quotidiano con Lui nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia! «Non diamo retta a queste fanfaronate!».  Insomma: per Padre Pio, la Comunione frequente è una colonna portante della vita spirituale.

L’altra colonna è la devozione alla Santa Vergine e la Consacrazione al suo Cuore Immacolato.

«Un giorno chiesero a Padre Pio perché insistesse tanto a far fare la Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Rispose San Pio: “Perché è l’unico posto al mondo in cui Satana non ha messo piede e mai ve lo metterà per prendersi le anime che vi saranno entrate… e vi aspetta un futuro così diabolico che l’apocalisse è nulla a confronto, mettetevi lì dentro e starete al sicuro».

Il santo cappuccino non si stancava di raccomandare l’obbedienza e l’amore per la Chiesa, che egli stesso viveva in modo eroico!

In una sua lettera (27 gennaio 2018) scrive a una figlia spirituale: «Dopo l’amore di nostro Signore, ti raccomando, o figliuola, quello della Chiesa sua sposa, di questa cara e dolce colomba, la quale solo può fare le uova, e far nascere i colombini e le colombine allo Sposo. Ringrazia Dio cento volte il giorno d’essere figliuola della Chiesa, ad esempio di tanti santi nostri fratelli che ci precedettero nel felice passaggio. Abbi gran compassione a tutti i pastori e predicatori della Chiesa….  Prega Dio per essi, acciocché salvando loro medesimi procurino fruttuosamente la salute delle anime…».

Viviamo in «tempi assai tristi», scriveva Padre Pio. Chissà cosa direbbe dei nostri tempi! A maggior ragione,  coloro che vogliono camminare oggi sulla via della perfezione ed essere difesi dal “morbo pestifero” dei vizi e del peccato non possono accontentarsi di fare di tanto in tanto la Comunione sacramentale! È normale che, come Tommaso, siamo a volte assaliti da dubbi e timori. Padre Pio esortava le sue figlie a cacciare questi dubbi.

Così Gesù nel vangelo di oggi esorta Tommaso ad accostarsi a Lui, a toccarlo, allontanando ogni dubbio e timore! 

Se davvero vogliamo fare progressi nella vita spirituale, ecco la strada raccomandata dal grande mistico stigmatizzato: allontanare i timori e ricevere ogni giorno “il Pane quotidiano”, grazie alla visita del Risorto nel nostro cuore! E cercare di farlo sempre meglio, con un sincero e umile spirito di adorazione, quello che portò san Tommaso ad esclamare, con stupore e commozione: «Mio Signore e mio Dio!»

Se riceviamo una visita da un grande Sovrano e quando bussa alla porta noi non la facciamo entrare in casa perché ci sentiamo indegni di accoglierlo, non gli facciamo forse un affronto? Non feriamo in questo modo il suo cuore? Apriamo la porta con gioia e umiltà, con commozione e stupore, accogliamo l’Ospite divino, che – come ha fatto con Tommaso e gli Apostoli – continua a farci visita nel Sacramento del suo Amore. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

 

«Impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità». Troviamo queste parole nel racconto evangelico di questa domenica. Gesù ha iniziato da poco il suo ministero pubblico e desidera annunciare il Regno di Dio, cioè mostrare che Dio è un Padre infinitamente buono, un Dio vicino all’uomo, che offre a tutti la grazia del perdono, della guarigione del cuore e della liberazione dal male. Ma come l’acqua che cade sulla roccia non può fecondare il terreno, così la sua opera deve fare i conti con i cuori induriti, resi impermeabili dall’incredulità.

Da notare la contrapposizione tra l’essere malati e l’essere increduli: Gesù può guarire solo «pochi malati», gli altri non possono essere guariti perché “increduli”. Essere increduli equivale perciò al credere di essere sani, di non avere bisogno di essere guariti.

D’altra parte, le beatitudini proclamano: «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli, beati coloro che hanno fame e sete…» e, viceversa, «Guai a coloro che si credono ricchi e che sono sazi!» (cf. Mt 5,3.6; Lc 6, 24-25).

Gesù si trova nella sua città, Nazaret. «Venne tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto», si legge nel prologo di Giovanni. L’incredulità dei suoi compaesani ci deve fare riflettere. Deriva dalla presunzione di conoscere Gesù, da un pre-giudizio. Invece di porsi ai piedi di Gesù e invocare la misericordia di Dio, si pongono su un piedistallo e lo giudicano. È una tentazione che riguarda i vicini, gli operai della prima ora, quelli che credono di sapere tutto su Dio, sul vangelo, sulla Chiesa, solo perché da una vita si ritengono dei “buoni cristiani”.

Sarebbe meglio avere una “spina nella carne” come Paolo – seconda lettura di oggi – per divenire maggiormente consapevoli della propria debolezza e cercare in Dio la nostra forza, piuttosto che crederci forti per i nostri meriti e divenire orgogliosi e quindi increduli! Le parole profetiche non possono portare nessun frutto nel cuore superbo, anzi divengono un capo di accusa – come si legge nella prima lettura – perché coloro che rifiutano l’appello alla conversione del «profeta» che «si trova in mezzo a loro» meritano di essere considerati «una razza di ribelli».

«Pietà di noi, Signore, pietà di noi!». Preghiamo con le parole del Salmo 122, come malati davanti a un medico, come assetati davanti alla Sorgente della Vita. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Gen 32,23-33; Sal 16; Mt 9,32-38

Giacobbe è in viaggio per incontrare Esaù. Desidera riconciliarsi con lui. Egli sa che il fratello non gli aveva perdonato l’inganno con cui aveva carpito la benedizione di Isacco e voleva ucciderlo. Per farsi perdonare e placare la sua ira, gli prepara in dono capri, pecore, cammelli, giovenche e asini e glieli invia avanti a sé.

È un momento cruciale. Egli ha paura per la propria vita e per quella dei suoi familiari. Come Abramo mentre sale sul Mòria, si affida a Dio senza sapere cosa accadrà.

È a questo punto che, presso il torrente Iabbòk, troviamo uno dei racconti più suggestivi e misteriosi dell’Antico Testamento. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora». Chi è questo uomo? Con chi lotta Giacobbe?

Non c’è una risposta chiara e univoca. Ciò che è certo è che questa narrazione ha un forte potere evocativo. La lotta di Giacobbe illumina le nostre lotte. Ci ricorda che il cammino di fede comporta inevitabili momenti di combattimento nella notte, nell’oscurità.

San Paolo scrive che il nostro combattimento non è contro gli uomini ma contro gli spiriti del male (cf. Ef 6,12). Ma sappiamo che l’azione del demonio è limitata dalla permissione divina. Quindi, paradossalmente, è come se lottassimo con Dio, o meglio: contro il dubbio sulla Bontà infinita di Dio. Il combattimento è permesso da Dio affinché vinciamo noi stessi, il nostro amor proprio, la nostra pretesa di essere al centro del mondo, le nostre paure e insicurezze, la fatica ad affidarci al Padre e a credere che Egli dispone per il nostro bene ogni cosa.

Giacobbe si rende conto che è più debole del suo avversario ma intuisce che questi agisce per conto di Dio e gli dice: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!» e l’uomo gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe esclama: «Davvero ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva».

Israele, il nuovo nome di Giacobbe, diverrà anche il nome del popolo che avrà origine della sua discendenza. Anche noi portiamo questo nome: siamo, per fede, «figli di Israele» (cf. Ap 7,4). Tutti noi abbiamo i nostri “Iabbòk”: attraversiamo notti oscure in cui lottiamo corpo a corpo con le nostre ansie e i nostri “dèmoni”. Ciò che conta in questi momenti non è tanto vincere, ma lottare con tutte le nostre forze, mantenerci fedeli a Dio nella tentazione, perché alla fine siamo certi che ci darà la sua benedizione. In questo buio è nascosta la luce più grande, in questa lotta contro satana possiamo “vedere” all’opera l’amore di Dio… E alla fine rimarremo feriti da questo amore. Feriti dal Cuore ferito di Cristo.  

È la gioia di scoprirsi figli in modo nuovo, con la gratitudine e la gioia nel cuore, come un uccello ferito che torna a volare e scopre in modo nuovo l’ebbrezza di librarsi nel cielo, proprio perché per un po’ di tempo ha dovuto rimanere a terra.
Non dovremmo avere paura perché Gesù, come ci ricorda il vangelo di oggi, è venuto per vincere il maligno. Se ci affidiamo a lui ogni nemico sarà sconfitto.

Con il salmista, diciamo, quando il nemico ci assale: «Custodiscimi, Signore, come pupilla degli occhi!». Amen.

don Francesco Pedrazzi

Gen 41,55-57; 42,5-7a.17-24a; Sal 32; Mt 10,1-7

La liturgia ci fa passare dalla storia di Giacobbe a quella del figlio Giuseppe e dei suoi fratelli. La prima lettura riporta una pagina relativa alla parte finale di questa storia. I fratelli, recatisi in Egitto a causa della carestia, incontrano Giuseppe, che avevano venduto per gelosia ed era poi divenuto, a loro insaputa, viceré d’Egitto. Giuseppe riconosce i fratelli mentre essi non lo riconoscono nelle vesti di sovrano. Perciò, li mette alla prova perché possano riflettere sull’atto malvagio compiuto contro di lui. Tiene prigioniero uno di loro e chiede di condurgli il fratello più giovane, Beniamino, rimasto nella terra di Canaan con Giacobbe. I fratelli vedono in questa richiesta un giusto giudizio di Dio per ciò che avevano fatto a Giuseppe. Quando se ne andarono, dice il racconto, «Giuseppe andò in disparte e pianse».

La storia di questi fratelli è bellissima perché sentiamo che è anche la nostra storia. Noi cristiani ci chiamiamo “fratelli” perché sappiamo di essere figli di un solo Padre, ma a volte ci facciamo del male perché lasciamo prevalere le gelosie e lo spirito di rivalità, la volontà di primeggiare, la presunzione di essere i migliori…. E, come un preziosissimo vaso di ceramica che cade si rompe in mille pezzi, così il dono della fratellanza si frantuma in un attimo. Ma, come avviene nell’arte giapponese del Kintsugi, in cui gli oggetti di ceramica sono riparati con l’oro e diventano più belli di quando erano integri, così Dio ha il potere di rimettere insieme i pezzi della fratellanza frantumata, quando nel cuore c’è un sincero desiderio di riconciliazione.

Il pianto di Giuseppe dice questo desiderio, così come la disponibilità dei fratelli ad assecondare le sue richieste pur di salvare il fratello rimasto prigioniero.

La storia di Giuseppe ci ricorda che la Provvidenza divina può trarre anche da un grande male un bene maggiore. Infatti, Giuseppe, il fratello venduto, diviene il salvatore della famiglia nel tempo della carestia e uno strumento di riconciliazione per ridare vita alla comunione frantumata.

Giuseppe prefigura Gesù, tradito e venduto per trenta monete d’argento, che simboleggiano i nostri peccati, ma divenuto causa di salvezza e strumento di riconciliazione tra gli uomini e con Dio.

Nel Vangelo di oggi istituisce i Dodici apostoli, a cui dà il potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. Il peggiore spirito impuro e la peggiore malattia è quella che ci separa dai fratelli, ed è riconducibile all’orgoglio, radice di ogni gelosia, invidia e rivalità.

Preghiamo, allora, con il salmista, dicendo: «Dall’orgoglio salva il tuo servo, Signore, perché su di me non abbia potere; allora sarò puro dal grande peccato!» (Sal 19,14). Amen!

don Francesco Pedrazzi

Gen 41,55-57; 42,5-7a.17-24a; Sal 32; Mt 10,1-7

Siamo all’epilogo della storia di Giuseppe. Le sue parole, mentre si fa riconoscere dai fratelli, rivelano il piano provvidenziale di Dio: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita».

Nelle figura di Giuseppe intravediamo quella di Cristo. Egli è trafitto per i nostri peccati, ma quello che poteva sembrare un fallimento è divenuta per tutti la via della salvezza.

Come il perdono di Giuseppe commuove i fratelli e cambia il loro cuore, così il perdono gratuito e incondizionato di Cristo ci rende creature nuove, perché spinge anche noi a perdonare chi ci ha ferito.

Come Dio ci ha donato tutto gratuitamente, anche noi desideriamo fare altrettanto. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», dice Gesù ai discepoli nel vangelo di oggi. In cinque parole c’è tutto il Vangelo!

Come un neonato che risponde con un sorriso al sorriso della madre, così la vita cristiana è rispondere al sorriso di Dio tramite il dono gratuito di noi stessi ai fratelli.

don Francesco Pedrazzi

Gen 46,1-7.28-30; Sal 36; Mt 10,16-23

 

«Cerca la gioia nel Signore ed egli esaudirà i desideri del tuo cuore». Troviamo queste parole nel Salmo responsoriale di oggi. È quanto è accaduto a Giuseppe. Pur passando attraverso tante contrarietà, è sempre rimasto fedele a Dio e non ha mai smesso di cercare la gioia nel Signore, cioè nell’adempimento della sua volontà. Pensiamo, ad esempio, al suo fermo rifiuto opposto alle avances della moglie del suo padrone Potifàr. «Come potrei peccare contro Dio?» (cf. Gn 39,9), disse. E preferì essere gettato in carcere piuttosto che tradire il suo Signore.

Per questo Dio lo ha benedetto e ha fatto volgere ogni cosa verso la gioia più grande che un uomo possa provare sulla terra: la comunione persa e ritrovata con i propri cari. Alla fine può riabbracciare anche il padre Israele, ovvero Giacobbe, ed entrambi vedono esauditi i desideri del cuore.

Le parole del Salmo trovano pieno compimento nel Vangelo. Gesù manda i suoi discepoli in missione «come pecore in mezzo a lupi», annunciando persecuzioni di ogni genere e prospettando i peggiori scenari, non perché si debbano realizzare necessariamente per tutti, ma perché non commettano il grave errore di cercare la gioia nelle cose di questo mondo, invece che in Dio soltanto e nella sua santa volontà.

«“Non preoccupatevi!” – dice loro – lo “Spirito del Padre” vi assisterà nei momenti di difficoltà!»

Il verbo “desiderare” deriva dal latino ed è composto da sìderis, “stella” e dalla particella intensificativa “de-”. Originariamente significa “fissare con intensità le stelle”. «Io sono la stella radiosa del mattino», dice Gesù nel libro dell’Apocalisse.

In ogni giorno del nostro viaggio terreno nell’oscurità della fede, fissiamo costantemente e con intensità la nostra stella del mattino, Gesù, certi che – cercando in lui la gioia – Egli esaudirà i desideri del nostro cuore.

don Francesco Pedrazzi

Es 1,8-14.22; Sal 123 (124); Mt 10,34-11.1

Inizia oggi, nella prima lettura liturgica, la proclamazione del libro dell’Esodo. È la storia dei figli di Giacobbe, ovvero di Israele, oppressi dal faraone d’Egitto e che Dio libererà, costituendo così il suo popolo santo: il popolo d’Israele. Ma è anche la nostra storia perché ognuno di noi è stato liberato dalla tirannia del demonio ed è divenuto “santo”, perché figlio di Dio e inabitato dello Spirito Santo.

La santità non è davanti a noi, ma dietro: consiste nel rimanere fedeli alla Grazia del nostro Battesimo. Nel pellegrinaggio terreno siamo chiamati a “divenire ciò che siamo” dal giorno del Battesimo, cioè a fare di Dio e del suo Figlio Gesù l’unico Signore della nostra vita, rigettando le lusinghe di satana che cerca di riconquistare il terreno perduto.

Il combattimento quotidiano consiste quindi nel rimanere in Cristo e nel tornare a Cristo, o meglio: nel “non anteporre assolutamente nulla all’amore di Cristo”, come scriveva San Benedetto nella sua Regola.

Se facciamo questo è inevitabile che il nemico scateni una guerra contro di noi. Una guerra benedetta, perché ci rende partecipi delle sofferenze di Gesù, pegno della sua gloria.

E così, come ci ricorda il vangelo di oggi, anche se “per quanto dipende da noi cerchiamo di vivere in pace con tutti” (Cf. Rm 12,18), di fatto la nostra fedeltà a Cristo comporta a volte tensioni e conflitti, anche con le persone più care.

Gesù non vuole la discordia ma ci chiede di non scendere mai a compromessi con la verità. “Amicus Plato sed magis amica veritas” dicevano gli antichi; che significa: “Platone è mio amico, ma ancor più sono amico della verità”. Noi amiamo tutti ma al di sopra di tutto amiamo la Verità, che è Cristo, e non temiamo di affermare la verità quando è negata, seppur “con dolcezza e rispetto” (Cf. 1Pt 3,15). Questo può portare a dissensi e divisioni, che sono parte di quella croce che Gesù ci chiede di prendere e abbracciare. È “l’albero maestro” senza il quale il soffio dello Spirito non potrebbe spingere il vascello della nostra esistenza verso il Porto celeste. A questo porto potremo arrivare a condizione che non rinneghiamo Cristo e non teniamo per noi stessi la vita per amore del mondo, invece di perderla per amore di Gesù.

don Francesco Pedrazzi

Es 2,1-15; Sal 68; Mt 11,20-24

 

La storia di Mosè inizia nel segno della tribolazione, in un momento drammatico per il popolo di Israele. Non solo il faraone aveva aumentato il carico di lavoro, ma aveva ordinato altresì la morte di ogni neonato maschio. Mosè vuol dire “salvato dalle acque”: un nome che preannuncia anche la missione che Dio gli affiderà. Dio, infatti, avrebbe salvato Israele dall’Egitto con mano potente, facendolo passare attraverso le acque del Mar Rosso.

Come nella storia di Giuseppe, anche in quella di Mosè si coglie un magnifico disegno provvidenziale. Trovato dalla figlia del faraone e cresciuto alla sua corte, diviene per lei come un figlio. Ma, dopo aver colpito a morte un egiziano, per difendere un ebreo, fugge nel deserto. Ed è a questo punto, proprio mentre dal punto di vista umano Mosè sembra caduto in disgrazia, che inizia l’esperienza più bella e importante della sua vita: l’incontro con il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Tutto questo anticipa la sapienza del vangelo e della croce, in cui Gesù mette in guardia coloro che, pur avendo ascoltato la sua Parola, continuano a vivere da gaudenti, facendo del benessere e del ventre il loro “dio” (cf. Fil 3,19). Il Vangelo di oggi ci ricorda che Corazìn, Betsàida e Cafarnao hanno veduto molti prodigi, ma non si sono convertite, e hanno continuato a vivere seguendo la condotta viziosa e immorale dei pagani. Perciò saranno giudicate severamente, come chiunque ha conosciuto Cristo ma continua a vivere come un pagano. Infatti – come scrive san Giovanni – non può esserci «l’amore del Padre» in chi ama la mondanità e vive nella concupiscenza (cf. 1Gv 2,15-16).

A volte c’è bisogno che arrivino i giorni di pioggia, per riscoprire la bellezza di fratello sole. Allo stesso modo, è proprio dopo i giorni di tempesta che possiamo riscoprire maggiormente la bellezza di Gesù, Sole della nostra vita.

Chiama anche noi, Signore, nel deserto, parla al nostro cuore e insegnaci a spogliarci di ciò che è superfluo, perché la nostra vita sia centrata solo su di Te, l’Unico necessario. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Es 3,1-6.9-12; Sal 102; Mt 11,25-27

 

Chi è Dio? Che volto ha?

I filosofi antichi, prima di Cristo, avevano intuito, tramite l’uso della sola ragione umana, che Dio è “l’Essere perfettissimo” – come si legge nel Catechismo di San Pio X -, “Colui che è” da sempre, il “Motore immobile”, la Causa prima di ogni cosa… Ma prima di loro Dio stesso aveva iniziato ad alzare il velo sulla propria identità e la pagina che oggi si proclama nella prima lettura – la cosiddetta “vocazione di Mosè” – è una pietra miliare dell’autorivelazione di Dio.

Quando Dio si fa conoscere è una sorpresa dopo l’altra! Egli si rivela a Mosè non solo come l’Essere eterno, ma come «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe»! È un Dio che è relazione personale con l’uomo, con ogni uomo. Ed è una novità clamorosa! In altre parole: Egli non è un Essere astratto e a-personale, distante e inconoscibile, come è inteso ancora oggi in molte religioni, ma un Dio personale che ha creato l’uomo per stabilire con lui una relazione intima di amicizia, che riempie di senso tutta la vita. Per questo il salmista esclama: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63,2).

In Cristo, Verbo eterno fattosi carne, la rivelazione raggiunge il suo culmine e aggiunge un tassello inauditoDio non è solo relazione con l’uomo, ma è da sempre “relazione in se stesso” tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo”. Di conseguenza – ci dice oggi Gesù -, «nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E il Figlio può rivelare il volto del Padre soltanto ai piccoli, perché il DNA di Dio è l’obbedienza: la gioia di anteporre la volontà altrui alla propria (cf. Gv 6,38).

Dio non può rivelarsi a coloro che si credono «sapienti» e «dòtti»! Come l’acqua di un torrente non può scorrere dal basso verso l’alto, così l’Acqua viva di Cristo non può scorrere laddove trova cuori altezzosi e superbi, che antepongono la propria volontà a quella divina.

Mi chiedo: sono disposto a rinunciare a tutto purché si adempia in me la volontà di Dio oppure deve essere Dio ad assecondare le mie convinzioni e la mia volontà? Sono un piccolo che cerca di lasciarsi guidare in ogni cosa dal Padre o un altezzoso sapiente che crede di aver capito tutto su Dio e impone le proprie idee ai fratelli?

don Francesco Pedrazzi

Es 3,1-6.9-12; Sal 102; Mt 11,25-27

 

«Io sono colui che sono!». Questa è la risposta che Dio dà a Mosè dal roveto ardente alla domanda: «Qual è il tuo nome?». Fiumi di inchiostro sono stati versati a commento di queste misteriose parole. Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: «Dio che rivela il suo Nome come “Io sono” si manifesta come il Dio che è sempre là, presente accanto al suo popolo per salvarlo» (n. 206). «Io sono» esprime al tempo stesso la realtà misteriosa e ineffabile di Dio, l’Essere a fondamento di tutto ciò che esiste, e la sua fedeltà irrevocabile, il suo “esserci” nella storia di Israele e di ogni uomo (cf. nn. 205-206.213).

Benedetto XVI, quando era ancora nelle vesti di teologo, in un suo libro, scriveva che questo nome non è stato dato da Dio «in modo definitivo». «Il Nome di Gesù, infatti, – scriveva Ratzinger – contiene» il nome di Dio [il tetragramma sacro] … «nella sua forma ebraica e vi aggiunge dell’altro: “Dio salva”. [Perciò] “Io sono colui che sono”, ora, a partire da Gesù, significa: “Io sono colui che vi salva…”» (J. Ratzinger, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1976, 19-20).

Di conseguenza, possiamo dire che solo in Gesù noi abbiamo conosciuto in pienezza il vero nome di Dio. Egli, infatti, è chiamato altresì l’“Emmanuele”, “il Dio con noi”, perché – come proclama san Pietro davanti al Sommo sacerdote a agli anziani di Israele: «Non vi è, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, [al di fuori di quello di Gesù] nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Ecco perché nel Vangelo di oggi il Signore esorta tutti coloro che sono “affaticati e oppressi” ad andare a Lui: «Venite a me… e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Un uomo che parla in questo modo, scriveva Staples Lewis, l’autore delle cronache di Narnia, o era un megalomane, un folle, oppure dobbiamo «chiamarLo Signore e Dio» e «cadere [in ginocchio] ai suoi piedi», di certo non può essere considerato solo un uomo di Dio o un profeta (cf. C.S. Lewis, Scusi… Qual è il suo Dio?, GBU, Roma, 1993, p. 76).

Da notare che traduciamo con “ristoro” una parola greca – da cui deriva anche la parola “pausa” – che significa “fermarsi” per riposare. Gesù è sempre con noi e noi siamo sempre alla sua presenza, ma ci invita a fare delle pause, a staccare dalle nostre occupazioni quotidiane, per immergerci totalmente in Lui, per rigenerarci, per permettere al suo Spirito di “ristorarci” e di “restaurarci”, due parole che hanno la stessa etimologia. Gesù ci rimette a nuovo, ci rende belli, come fa un restauratore con un’opera d’arte!

Dio è con noi, ogni giorno, specialmente nel Sacramento della sua Fedeltà e della sua Presenza che è la Santissima Eucaristia. Che bello poter staccare dai nostri affanni per andare a Lui, l’Unico che può ristorare e restaurare le nostre vite, farci ritrovare la bellezza perduta a causa del nostro egocentrismo, e alleggerire il peso delle nostre croci, perché ci insegna la via dell’umiltà del cuore e della dolcezza. Andiamo a Lui, come insegnava san Bonaventura – il santo di oggi – ma non solo mediante “una pura considerazione astratta” – perché Dio lo si raggiunge con l’amore, che consiste essenzialmente nella purificazione dagli affetti disordinati, allorché dirigiamo con fermezza, costi quel che costi, la nostra volontà verso di Lui, Unica Mèta del nostro itinerario terreno. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Es 11,10-12,14; Sal 115; Mt 12,1-8

 

«Misericordia io voglio e non sacrifici», dice Gesù nel vangelo di oggi, per giustificare il fatto che i suoi discepoli avevano raccolto delle spighe in giorno di sabato. Sono parole del profeta Osea, che denunciava i falsi culti di Israele: falsi perché venivano offerti molti sacrifici di animali in onore del Signore e al contempo non si osservavano i suoi comandamenti.

Ma cosa c’entra questo con le spighe raccolte di sabato? Si direbbe che è il contrario di quanto afferma Osea, perché Gesù sembra ammettere un’eccezione al decalogo!

Ma non è assolutamente così! È Lui, il figlio dell’uomo, la chiave per comprendere il vero e pieno significato del decalogo, che è l’amore verso Dio e verso il prossimo. Ma – come lo stesso Gesù dice altrove – i farisei avevano oscurato “il comandamento di Dio” in nome delle loro tradizioni umane (cf. Mc 7,8-13). Il falso tradizionalismo, in nome di un’osservanza scrupolosa delle norme morali e rituali, finisce con il soffocare il primo comandamento, quello dell’amore e della misericordia. Anche il profeta Isaia aveva proclamato con vigore che Dio non sopporta «delitto e solennità» e i sacrifici e «l’incenso» sono «un abominio» laddove manca la giustizia e la carità (cf. Is 1,11-17).

Come alcuni purtoppo riconoscono certi funghi velenosiin tutto simili ai funghi commestibili, solo dopo averli mangiati, per gli effetti dell’intossicazione, così il falso tradizionalismo, che è molto simile a quello vero, lo si riconosce quando lascia i cuori intossicati dal veleno dell’inquietudine e li priva della dolcezza dell’amore fraterno e della pace spirituale.

Uno solo è il sacrificio gradito a Dio: il sacrificio che porta a compimento l’antico rito della Pasqua prescritto dal Signore per evitare che gli israeliti fossero colpiti dallo «sterminatore»: è – come si legge nella Lettera agli Ebrei – «l’offerta del Corpo di Gesù Cristo» fatta «una volta per sempre» sul Calvario (cf. Eb 10,10) e che si rinnova ogni volta che si celebra la Santa Messa.

L’unico Sacrificio d’amore di Cristo annulla i tanti sacrifici rituali non di rado animati dalla superbia e dalla vanagloria. La santissima Eucaristia è il vero sacrificio gradito a Dio perché in esso ci offriamo in unione a Cristo per impetrare la divina Misericordia per noi e per il mondo intero.

Mi chiedo: dinanzi ai “malvagi”, li giudico e li “sacrifico” sull’altare del mio “ego”, oppure mi offro in sacrificio d’amore per loro, nell’osservanza dei veri comandamenti di Dio e della Chiesa, per ottenere perdono e misericordia?

don Francesco Pedrazzi

Es 12,37-42; Sal 135; Mt 12,14-21

La prima lettura riporta l’evento memorabile dell’uscita di Israele dalla terra di Egitto. Per noi discepoli di Gesù questa liberazione è un’immagine eloquente del passaggio dalla condizione di schiavi alla condizione di figli, di uomini liberi, in forza della grazia di Cristo.

Nella Lettera agli Ebrei si legge che «Cristo ha ridotto all’impotenza mediante la sua morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e ha liberato così quelli che, per timore della morte, sono soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14-15).

La paura della morte è quindi il filo attraverso cui il burattinaio infernale ci tiene prigionieri! È un’ombra che sovrasta l’esistenza dell’uomo, che egli lo sappia o no, e che gli impedisce di essere pienamente libero, di essere sé stesso. «L’ombra di morte» di cui parla il Cantico di Zaccaria, si dirada quando siamo visitati da Cristo il «sole che sorge dall’alto» (cf. Lc 1,78-79).

Gesù ci libera da questa paura e ci permette di guardare in faccia alla morte come a una “sorella”, non come a una fonte di angoscia.

Ma davvero abbiamo permesso a Cristo di liberarci dalla paura della morte?

Come ha scritto il grande filosofo Blaise Pascal tanti cristiani non sono mai stati veramente «guariti dalla morte», ma al contrario decidono «non pensarci» gettandosi nel «divertissement», cioè in quelle distrazioni mondane che impediscono di pensare, di riflettere sul proprio destino eterno, e il “divertissement” diviene in realtà «la maggiore tra le nostre miserie» (Blaise Pascal, Pensieri, n. 168.171)

Tutte le nostre pigrizie e indolenze, le nostre angosce, ansie, paturnie… così come l’ira, la violenza verbale e fisica… sono tutte figlie della paura della morte, della paura di invecchiare, di ammalarci, di divenire impotenti… Non possiamo vincere questa paura scegliendo di non riflettere sulla morte e di gettarci a capofitto nelle distrazioni! Al contrario, questo ci porta a una vita mediocre, vuota, sterile, dispersiva, come lo è un fiume che si disperde in mille rivoli e dissecca o come un uccellino in una gabbia aperta che preferisce la schiavitù con il cibo assicurato a una condizione di vera libertà.

Vivere ogni giorno della nostra vita terrena, sapendo che potrebbe essere l’ultimo, ma sentendosi in coscienza sereni e pronti a incontrare il Giudice della vita, è un segreto di grande saggezza! (cf. Sal 90.12). È ciò che ci consente di imitare Gesù buono e umile di cuore, ritratto oggi dalle parole di Isaia: «Non alza la voce, non spezza una canna già incrinata e non spegne una fiamma smorta…». Dinanzi a coloro che volevano «farlo morire» continua ad essere sereno, tranquillo e mansueto come un agnello, perché libero dalla paura della morte.

Inoltre, nel Getsemani ci insegna il grande rimedio per affrontare questa paura: la preghiera accorata di abbandono nelle braccia del Padre è 

Metti nel nostro cuore, o Signore, la certezza che Tu hai vinto la morte, che chi crede in Te non muore, ma entra nella vita! Amen.

don Francesco Pedrazzi

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

 

Una delle immagini più ricorrenti nella Scrittura per rappresentare il rapporto dell’uomo con Dio è quella delle pecore e del pastore.

Perché?

Perché come le pecore non possono vivere nella pace senza un pastore, così l’uomo non può trovare pace senza Dio.

La parole del Salmo 22 hanno un fondamento nella realtà, perché le pecore non sono animali autonomi: hanno bisogno di una guida che le conduca a pascoli erbosi e ad acque tranquille, lungo un cammino sicuro, lontano dai pericoli. La sola presenza del pastore infonde loro pace e sicurezza.

La condizione dell’uomo è analoga. Egli dimora nella pace quando si sente guidato verso una meta da qualcuno più grande di lui, che lo ama e lo custodisce.

Un’idea deleteria che sta devastando l’umanità da qualche secolo è quella che l’uomo dovrebbe emanciparsi da Dio: che non ha bisogno di un “dio” che si prenda cura di lui, che lo guidi e lo protegga. L’uomo – dicono gli illuministi e gli illuminati di ogni tempo – può essere totalmente se stesso se si scrolla di dosso ogni credenza religiosa, limitandosi a seguire i dettami della sola ragione! Ed è così che – grazie a queste idee – le parole del vangelo di questa domenica suonano di un’attualità disarmante: «Gesù vide una grande folla ed ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore».

Davvero l’umanità di oggi è degna di “compassione” perché appare come una moltitudine immensa di pecore senza pastore! O meglio: siccome l’uomo in realtà non può vivere senza un pastore, al posto di Dio ecco che hanno preso il posto tanti falsi pastori e falsi maestri.

E così, alcuni di coloro che si vantano di non credere più in Gesù, cercano la pace in tecniche di meditazione mutuate da religioni orientali o da tradizioni esoteriche, esponendosi a danni enormi sul piano spirituale (come sanno, per esperienza, gli esorcisti!), oppure pensano di trovare la serenità in un preparato pseudo-scientifico acquistato in farmacia, rivolgendosi a maghi e cartomanti o seguendo il personaggio eccentrico e carismatico che dice cose nuove e diverse da quelle che la Chiesa ha sempre insegnato…  Insomma, abbandonando Dio si va dietro a falsi pastori, che – come si legge nella prima lettura – «fanno perire e disperdono il gregge».

È proprio vero quanto scriveva Gilbert Chesterton: «Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto!».

Mentre il grande sant’Agostino, un uomo che per trent’anni si era illuso di trovare la pace e la libertà facendo della ragione il proprio “dio”, apriva le sue Confessioni con le celebri parole: «Ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te!» (I,1,1).  E più avanti esclama: «Cosa sono io per me stesso senza Te, se non una guida verso il precipizio?» (IV, 1,1). Egli viene ricondotto al vero pastore, grazie sant’Ambrogio, di cui scrive: «A lui ero guidato inconsapevole da Te, o Signore, per essere da lui guidato consapevole a te» (V, 13,23).

Chiediamo a Dio che ci invii santi sacerdoti, santi vescovi, che possano guidarci a Cristo, che è – come scrive san Pietro – «pastore e custode delle nostre vite» (cf. 1Pt 2,25)! I veri e santi pastori li si riconosce dal fatto che non conducono a se stessi, divenendo causa di divisione nel gregge, ma a Cristo, colui che – come si legge nella seconda lettura – è «la nostra pace», Colui che abbatte ogni «muro di separazione».

«Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’!». Ecco le parole che rivolge ad ognuno di noi Gesù, il nostro buon pastore. Nei momenti di stanchezza ripetiamo nel nostro cuore con il salmista: «Solo in Dio riposa l’anima!» (Sal 62,2). Non è sufficiente andare in vacanza! Non basta il riposo psico-fisico e il ricorso a mezzi umani per trovare la pace che il nostro cuore desidera.

Solo in Gesù, pastore della nostra vita, possiamo trovare il vero riposo per il nostro cuore! Come il corpo ha bisogno ogni giorno di rigenerarsi con il riposo notturno, così la nostra anima, la parte più intima di noi stessi, ha bisogno ogni giorno di andare a Gesù, in disparte, per riposare in Lui e trovare pace.

don Francesco Pedrazzi

Es 14,15-18; Cant. Es 15,1-6; Mt 12,38-42

 

La liturgia di oggi – nella prima lettura e nel vangelo – ci parla di due nemici della fede: la mormorazione e la richiesta pretenziosa.

La mormorazione è il modo con cui reagiscono gli Israeliti, mentre erano accampati presso il mare, quando vengono raggiunti dagli Egiziani. «È forse perché non c’erano sepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? ….è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto!». Mosè rispose: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore, il quale oggi agirà per voi; … il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli».

Dinanzi a un grande ostacolo, dove non s’intravede una via d’uscita, siamo tentati di reagire con la mormorazione contro Dio e i suoi rappresentanti. Ma l’uomo di fede non sceglie questa strada. Cerca, invece, di stare calmo, di allontanare la paura e di infondere tranquillità a chi ha accanto, perché sa, nel profondo del proprio cuore, che non c’è problema che Dio non possa risolvere. L’uomo di fede dinanzi alle prove non devia a destra o a sinistra, ma rimane fedele Dio e ai suoi rappresentanti. Segue la strada che consigliava sempre il grande San Pio da Pietrelcina a chi era tentato di mormorare contro la Chiesa e i suoi pastori: «Lascia tutto nelle amorose mani della Provvidenza!».

La richiesta pretenziosa è la reazione degli scribi e dei farisei al ministero di Gesù. Gli dissero: «Maestro, da te vogliamo vedere un segno!». Il problema non è la richiesta del segno in quanto tale, anche perché nella Bibbia troviamo episodi di uomini di fede che chiedono a Dio un segno, come il giudice Gedeone (cf. Gd 6,36-40). Dio stesso invita Acaz a chiedere un segno (cf. Is 7,11). Il problema è quel «vogliamo»: è la pretesa pretenziosa e orgogliosa che Dio, o i suoi rappresentanti, facciano ciò che noi vogliamo. Invece di dire «Sia fatta la tua volontà!», diciamo «Sia fatta la nostra volontà!».  

Tra mormorazione e richiesta pretenziosa c’è un forte legame, perché chi pretende qualcosa da Dio e dai suoi rappresentanti e non la ottiene cade nella mormorazione e inizia a gettare fango, a prendersela con Dio e e con i suoi pastori.

Se ci si trova all’improvviso dinanzi a un orso, la prima cosa da evitare, per non essere sbranati, è agitarsi, urlare e mettersi a correre. Occorre invece stare calmi, immobili o muoversi molto lentamente. Similmente, dinanzi al nemico infernale, occorre reagire con la calma della fede, con la fiducia in Dio.

Dice, infatti, il Signore, nel libro del profeta Isaia: «Nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza!» (Is 30,15).

Aiutaci, Signore, a vedere la tua bontà anche laddove siamo tentati di vedere solo l’opera del nemico! Fa’ che, dinanzi agli ostacoli della vita, non cadiamo nell’agitazione, nella mormorazione e nella disobbedienza, ma rimaniamo calmi e camminiamo nella fedeltà, confidando nella potenza del tuo Amore! Amen.

don Francesco Pedrazzi

Es 14,21-31; Cant. Es 15,8-17; Mt 12,46-50

«Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre», ci dice oggi Gesù nel vangelo.

Siamo per Gesù “fratelli e sorelle” quando compiamo la volontà di Dio perché assumiamo sempre di più i lineamenti del suo volto. Siamo per Gesù “madri” perché lo concepiamo e lo generiamo tramite fede, portandolo così al prossimo. Questo è il primo e più importante modo di imitare Maria Santissima! Infatti, se è vero che solo lei ha concepito e generato il Figlio di Dio nella carne, è altrettanto vero che come lei possiamo concepirlo e generarlo nella fede.

Maria non è solo un modello da imitare per compiere la volontà di Dio, ma il mezzo scelto da Dio per operare in noi con la sua Grazia. Scrive, infatti, san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Una madre non mette al mondo la testa, o il capo, senza le membra…» così Maria non ha generato solo il Capo che è Cristo, ma genera altresì le sue membra, che siamo noi (cf. Trattato della vera devozione a Maria, n. 32; Cf. anche Concilio Vaticano II, Lumen gentium n. 63). Questa “generazione spirituale” ha un significato mistico profondissimo che tutti i santi hanno ben compreso: tanto più la presenza di Maria riempie la nostra vita quanto più facilmente riusciamo ad adempiere la volontà di Dio e lo Spirito Santo può imprimere in noi i lineamenti di Gesù, generandolo in noi e attraverso di noi.

L’epico racconto del passaggio del Mar Rosso, nella prima lettura, è simbolo della stupenda vittoria di Cristo sul demonio attraverso le acque del Battesimo. Da quel giorno siamo membra del Corpo di Cristo e viviamo una vita nuova, la Vita di Dio, la vita nella libertà dei figli Dio.  Ma come gli Israeliti dopo il passaggio del Mar Rosso sono tentati di rimpiangere la schiavitù d’Egitto, anche noi cristiani siamo talora tentati di preferire una vita comoda e senza troppi pensieri, in una sorta di “prigione dorata“, in cui serviamo gli idoli del mondo (agiatezza, benessere, comfort, manicaretti, televisione, internet, ecc.…). Si tratta di una condizione da schiavi, che alla fine lascia vuoti, frustrati, annoiati e prigionieri di fisime mentali…

Il Signore Gesù – come scrive san Paolo nella lettera ai Galati- ci ha liberati perché restassimo liberi, non perché ci lasciassimo imporre nuovamente il giogo della schiavitù! (cf. Gal 5,1). Perciò ci invita continuamente a rinunciare agli idoli mondani per dedicare tempo ed energie al suo servizio e a quello dei fratelli, in un cammino gioioso nel segno del sacrificio d’amore e della vera libertà.

Non comportiamoci come quegli uccellini a cui il padrone apre la gabbia per liberarli nell’aria aperta e che – dopo un piccolo volo – preferiscono tornare nella loro prigione dorata, dove possono sentirsi al centro del mondo e pensare solo a rimpinzarsi di cibo e a saltellare da un angolo all’altro…

Chiediamo alla Santa Vergine di aiutarci a rinnegare i nostri idoli e le nostre sicurezze mondane, per volare con audacia e vera libertà nel cielo della fede, in modo da portare Gesù ai nostri fratelli. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Es 16,1-5.9-15; Sal 77; Mt 13,1-9

«Fece piovere su di loro la manna per cibo e diede loro il pane del cielo».

Sono parole del Salmo 77, proclamate oggi nella liturgia eucaristica, che riassumono il contenuto della prima lettura e anticipano in modo meraviglioso il Mistero eucaristico istituito da Gesù. Scrive Sant’Ambrogio: «Chiediti se sia più eccellente il pane degli angeli mangiato dagli Ebrei nel deserto o la carne di Cristo…. Quella manna veniva dal cielo, questo Corpo è al di sopra del cielo. […] è [perciò] migliore il corpo del Creatore della manna del cielo» (cfr. Trattato sui misteri, nn. 43.47.49).

È impossibile rendersi di conto di quanto sia grande e preziosa la realtà della santissima Eucaristia! Ma ci pensiamo? Essa è il «Corpo del Creatore»! Tutta la creazione non vale quanto quel pezzo di pane, perché in realtà non è pane, ma la persona gloriosa di Cristo! L’Eucaristia è l’unica realtà sotto il cielo che è sostanzialmente “celeste”, soprannaturale. È il Cielo che discende sulla terra. Sulla terra non c’è niente di più grande della Santa Messa.

Sant’Alfonso de’ Liguori arriva ad affermare: «Dio stesso non può fare che vi sia un’azione più santa e più grande della celebrazione di una Santa Messa».

Se la Messa è così grande perché non sempre santifica e cambia le persone? …anzi capita di incontrare fedeli che vanno a Messa tutti i giorni che sembrano più cattivi di chi non ci va! Il difetto non sta evidentemente nel sacramento, ma nelle disposizioni con cui viene ricevuto!

La parabola del seminatore, nel vangelo di oggi, può essere applicata non solo alla Parola di Dio ma anche all’Eucaristia e ai sacramenti in genere. Se ci accostiamo alla santa Comunione mentre pensiamo a tutt’altro, il nostro cuore è come una strada polverosa e quella Comunione è inutile, se non addirittura dannosa. Se ci accostiamo senza un proposito fermo e sincero di osservare i comandamenti di Dio, il nostro cuore è come un terreno sassoso, il cui germoglio seccherà ben presto sotto il sole delle prime tentazioni. Se quando ci accostiamo alla santa Comunione non coltiviamo il senso della presenza di Gesù lungo la nostra giornata, gli affanni quotidiani soffocheranno la vita sacramentale e non ne trarremo alcun frutto.

Solo se sapremo preparare il cuore per ricevere nel modo migliore il Pane del Cielo e sapremo tener vivo questo fuoco d’amore lungo la giornata, allora il sacramento sarà come un seme caduto su un terreno buono e porterà abbondanti frutti di conversione.

Un sacerdote bresciano, recentemente scomparso, esperto di botanica, un giorno trovò in Val Camonica un fiore rarissimo (in Italia): la Linnaea borealis. Quando se lo trovò davanti provò una grandissima gioia, perché da una vita coltivava la speranza di trovarlo! Eppure, per un escursionista profano si presenta come un banale fiorellino rosaceo.

 Tutto dipende dal modo con cui guardiamo una realtà: se la guardiamo solo con gli occhi o anche con il cuore!

Mi chiedo: quando mi trovo dinanzi all’Ostia santa, che cosa vedo e che cosa provo? Vedo solo un banale pezzo di pane e perciò non provo nulla oppure vedo il mio Dio che in quel momento si sta per donare a me nel Pane del Cielo e sento il cuore battere di gioia e di trepidazione? 

don Francesco Pedrazzi

Ct 3,1-4; Sal 62; Gv 20,1-2.11-18

 

«C’erano con Gesù i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: [tra cui] Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni» (Lc 8,2).

È il ritratto saliente che l’evangelista Luca fa della santa di cui oggi ricorre la festa: santa Maria Maddalena. Gesù le ha cambiato la vita e lei in cambio gliel’ha donata completamente.

Il racconto odierno dell’evangelista Giovanni è di una bellezza narrativa singolare! Lascia trasparire in tutta la sua profondità il legame tra la Maddalena e Gesù.

La donna è in lacrime presso il sepolcro vuoto. «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto!» – esclama. Da notare quel «il mio Signore». Maria pensava a Gesù come a un suo “possesso”, un tesoro che le era stato tolto. È un pianto dovuto, almeno in parte, alle proprie ferite interiori. I sette demoni avevano messo in crisi la propria autostima e pertanto aveva riposto tutte le sue sicurezze nell’umanità del Gesù terreno. Ora quelle sicurezze sembravano crollare all’improvviso!  Non riusciva a immaginare di poter vivere senza di Lui; di poter camminare da sola, sulle proprie gambe. Aveva bisogno del “suo” Gesù come di un bastone che le dava sicurezza!

Mentre pensava dentro di sè a tutto questo, sente pronunciare il proprio nome in un modo unico, come dice quel bel canto che forse ha preso ispirazione proprio da questa pagina del vangelo: «Quante volte un uomo con il nome giusto mi ha chiamata | Una volta sola l’ho sentito pronunciare con amore…».

Le lacrime di dolore divengono lacrime di gioia. Maria si getta ai piedi del Signore e vorrebbe trattenerlo, perché è il “suo” Gesù… «Non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli…!» – le dice.

In questo modo le cambia la vita per una seconda volta, ma in un modo più grande. Le fa capire che quell’uomo, che aveva confuso con il giardiniere, è il Dio della vita che da quel giorno avrebbe potuto sempre trovare  e abbracciare nel giardino del proprio cuore! Mai più si sarebbe sentita sola!

Le parole sublimi del Cantico dei Cantici – nella prima lettura – fanno da corollario a questo racconto: «Ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato…». «Trovai l’amore dell’anima mia. Lo strinsi forte e non lo lascerò!». Così nel Salmo di oggi si legge: «Quando penso a te… esulto di gioia all’ombra delle tue ali. A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene».

Che dono immenso poter credere a un Dio crocifisso per amor nostro e risorto dalla morte! Ci basta pensare a Gesù per esultare di gioia, per stringerci a Lui e sentirci al sicuro “all’ombra delle sue ali”, come pulcini che si stringono sotto le ali della chioccia!

Santa Maria Maddalena è la prima di una serie sterminata di santi e di sante che hanno scoperto che il tesoro che cercavano al di fuori, nelle creature, era in realtà dentro di loro, come scrive Sant’Agostino: «Tu [o mio Dio] eri dentro di me, e io invece ti cercavo là fuori. … Mi tenevano lontano da Te quelle creature che non esisterebbero se non esistessero in Te!».

Pensiamo spesso a Gesù, l’amore delle nostre anime, per esultare gioia all’ombra delle sue ali. Amen!

don Francesco Pedrazzi

Gal 2,19-20; Sal 33; Gv 15,1-8

 

del marito si diede a una vita più ascetica e contemplativa, pur rimanendo nel mondo. Fondò un ordine religioso, intraprese eroici pellegrinaggi a scopo di penitenza, girò l’Europa ammonendo e consigliando re, principi e papi e visse esperienze mistiche singolari, alcune delle quali sono state raccontate nelle sue opere.

Il Vangelo della sua festa è quello della vite e dei tralci. Questo ci deve fare riflettere!

Gesù ci dice oggi: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, mentre senza di me non potete far nulla!».

La vita di santa Brigida ha portato frutti in abbondanza perché si è sempre preoccupata prima di tutto di rimanere in Gesù, cioè di fare di lui l’unico  Signore della sua vita, rispondendo così alla vocazione fondamentale di ogni battezzatola vocazione alla santità. La vocazione non consiste tanto nello sposarsi o nel non sposarsi, nell’avere figli o nel non averli, nell’essere nel mondo o in un monastero… La vocazione ha a che fare con un desiderio di assoluto che ogni uomo avverte nel proprio cuore e che può trovare una risposta piena solo nell’amore totale e incondizionato per Gesù Cristo. 

Se uno – sull’esempio di santa Brigida e di tutti i santi – si dona totalmente a Gesù e medita ogni giorno la sua Passione d’Amore, sarà in grado di vivere ogni condizione di vita che la Provvidenza gli riserva nel migliore dei modi, e porterà frutti in abbondanza, perché affronta le contrarietà non recriminando o lamentandosi ma offrendosi al Padre in semplicità e letizia, con la forza del Cristo crocifisso che vive in lui.

Nei suoi scritti santa Brigida insegna che colui che medita la Passione di Gesù vince gli affetti disordinati del proprio cuore e corre con gioia verso il cuore di Dio (cf. Libro VI, 101). È come un «vaso vuoto» che si riempie di Dio perché lo desidera «sopra ogni cosa». Infatti, insegna la santa compatrona di Europa, lo Spirito Santo «non entra in chi è colmo» di orgoglio ma in chi si svuota di se stesso (cf. Libro VI, 36). Serve a poco o a nulla anche accostarsi all’altare del Signore se il nostro cuore «è vuoto di Dio ed è pieno di vanità mondane» (Libro VII, 27).

Mi chiedo: Il mio cuore è come un “vaso vuoto” che porta impresso il sigillo della croce di Gesù, in cui lo Spirito Santo può entrare, oppure è un vaso pieno di orgoglio e vanità, che chiude l’ingresso allo Spirito Santo?

Preghiamo con le bellissime parole dell’orazione colletta: «O Dio, che hai guidato santa Brigida nelle varie condizioni della sua vita, e nella contemplazione della passione del tuo Figlio le hai rivelato la sapienza della croce, concedi a noi di cercare te in ogni cosa, seguendo fedelmente la tua chiamata! Amen».

don Francesco Pedrazzi

Es 24,3-8; Sal 49; Mt 13,24-30

 

«Un nemico ha fatto questo!». Con queste parole Gesù risponde all’obiezione più ricorrente contro Dio e la sua bontà: «Perché il male? Perché se Dio è buono e semina il bene, nel campo del mondo c’è anche tanta zizzania?». Non è opera di Dio, ma di satana, del nemico!

Ci fa bene richiamare alla mente queste parole quando riteniamo che qualcuno ci abbia offeso, ci abbia fatto un torto. «Un nemico ha fatto questo!» – dovremmo pensare. In tal modo, possiamo guardare a quel fratello o a quella sorella ricordando che nella sua realtà più profonda è buono, perché è uscito dalle mani di Dio, anche se, come ogni uomo, può essere vittima dei raggiri del nemico, di colui che “semina zizzania”.

È chiaro che in tal modo non giustifichiamo il male, ma evitiamo di giudicare il prossimo.

Scarichiamo piuttosto la nostra rabbia contro i veri nemici, che – come scrive san Paolo – non sono creature “in carne e ossa”, ma creature spirituali che hanno scelto in modo definitivo di non sottomettersi alla sovranità di Dio (cfr. Ef 6,12).

«Offri a Dio un sacrificio di lode», si legge nel salmo di oggi. E la prima lettura ci parla del sangue versato sul popolo a sigillo dell’Alleanza del Sinai, basata sull’osservanza dei comandamenti. Ricordiamo che le tavole del Decalogo si riassumono, per Gesù, nel comandamento dell’amore. Perciò, offriamo a Dio un sacrificio di lode quando facciamo sparire i rancori, le gelosie, le invidie, i giudizi temerari contro il prossimo.

Se coltiviamo cattivi pensieri nel cuore, la nostra preghiera e la nostra offerta non possono essere gradite a Dio, come non lo fu quella di Caino!

Come una farfalla è attirata dai fiori quando sono belli e colorati, così lo Spirito del Signore è attirato dai cuori quando sono ornati dalla benevolenza e dalla cordialità e profumano dell’amore sincero per i fratelli. Amen! 

don Francesco Pedrazzi

2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

 

«[Gesù] disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova; egli, infatti, sapeva quello che stava per compiere».

In che senso il vangelo dice che Gesù vuole “mettere alla prova” Filippo? È una domanda importante, perché capita a volte di dire che Dio ci mette alla prova, ma potremmo intendere in modo sbagliato questa espressione.

Per rispondere occorre tenere presenti tre punti fermi della nostra fede. Il primo, il più importante è la certezza che Dio è “Padre” e vuole sempre e soltanto il nostro bene, il bene dei suoi figli. Il secondo è che Dio non vuole mai il male perché egli – come diceva san Francesco d’Assisi – è «il Bene, ogni bene, il Sommo Bene». Il terzo, conseguente ai primi due, è che quando Dio permette una prova è sempre per il nostro bene. Non lo fa per conoscerci, perché egli ci conosce sempre in modo perfetto, ma perché noi, attraverso la prova, possiamo conoscere noi stessi e maturare nel nostro cammino umano e cristiano.

La prova in questo vangelo consiste nel fatto che i discepoli si trovano davanti a centinaia di persone venute per ascoltare Gesù e che dovevano essere congedate perché non avevano mangiato, rischiando peraltro di venir meno lungo il cammino (Mc 8,3). Gesù fa sì che i discepoli prendano coscienza che non possono fare nulla ricorrendo ai soli mezzi umani per sfamare tanta gente!

Ci sono situazioni nella vita in cui l’uomo può solo costatare la propria impotenza, l’incapacità di risolvere un problema ricorrendo soltanto a mezzi umani.

Ma Gesù ricorda ai suoi discepoli – e a noi – che c’è sempre una strada alternativa che Dio ha in serbo al di là delle soluzioni umane. Qual è questa strada? Sazia la folla moltiplicando i pani e i pesci e lo fa a partire non dal nulla, ma dai cinque pani d’orzo e dai due pesci messi a disposizione da un ragazzo anonimoQuel ragazzo anonimo rappresenta ognuno di noi!

Gesù ci insegna che Dio può compiere grandi cose nella nostra vita quando ci scopriamo piccoli, poveri, limitati e deboli, ma gli consegniamo quella povertà: tutto ciò che siamo e che abbiamo.

È accaduto a tutti i santi e alla Madre celeste, che infatti esclama: «Il Signore ha guardato alla piccolezza della sua serva… perciò ha compiuto in me grandi cose!»  La grandezza dei santi non va cercata nelle qualità umane, ma nel fatto che esse sono state consegnate a Gesù ed è ciò che tutti siamo chiamati a fare!

Dinanzi a situazioni in cui apparentemente non c’è una via d’uscita, Gesù ci dice: «Fidati di me, consegna a me le tue ansie, le tue paure, il tuo cuore, la tua povertà e lascia fare a me! …e ti condurrò “all’altra riva”, oltre l’ostacolo!»

Al di là del segno portentoso della moltiplicazione dei pani e dei pesci, il miracolo che ognuno di noi può sperimentare ogni giorno è che ciò che dividiamo con i fratelli, nel nome di Gesù, si moltiplica. È la strana equazione aritmetica del Vangelo: più doniamo e più avremo! Più doniamo e più riceviamo! Che cosa riceviamo? Dio ci nutre di un cibo infinitamente superiore a quello materiale. Un animale può accontentarsi anche del solo cibo materiale… ad esempio, basta un pascolo di erba fresca per rendere felici dei bovini! L’uomo no, perché il suo cuore ha una fame di infinito: «Non di solo pane vive l’uomo – dice Gesù – ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cf. Mt 4,4). Al di là del sostentamento biologico, c’è una fame più radicale di amore e il desiderio profondo di dare un senso pieno alla vita. Nella Parola di Dio e nel sacramento della Santissima Eucaristia possiamo sfamare questa fame e trovare pace per il nostro cuore!

don Francesco Pedrazzi

Es 32,15-24.30-34; Sal 105; Mt 13,31-35

il tuo Dio, o Israele, Colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto!».

Nondimeno, commettono un grave peccato perché il vitello d’oro è completamente diverso dal vero dio e prende il suo posto. È di fatto un “anti-Dio, nel senso che sta “davanti a Dio”, “al posto di Dio”! La grande differenza è che il vero Dio parla al suo popolo e fa conoscere la sua volontà e i suoi comandamenti perché siano osservati, mentre l’anti-Dio, l’idolo, è muto e diventa un pretesto per una religiosità narcisistica ed esteriore, in cui gli Israeliti non fanno ciò che vuole di Dio ma ciò che vogliono loro.

È un peccato contro il primo comandamento: «Non avrai altro Dio all’infuori di me!» ed è grave perché laddove si adora un idolo si detronizza il vero Dio dal proprio cuore.

Mi chiedo: sono certo di adorare il vero Dio oppure sto adorando un anti-dio, un idolo che mi sono fabbricato a mia immagine e somiglianza? Sono io che stabilisco ciò che è buono e ciò che non è buono, ciò che è vero e ciò che è menzognero, oppure mi metto in ascolto docile della Parola di Dio – che giunge a me attraverso la Sacra Scrittura e l’insegnamento del Magistero, che la interpreta autorevolmente?

San Francesco d’Assisi – che pregava spesso con le parole: «Dammi umiltà profonda!» – aveva ben compreso che per rimanere fedele a Gesù doveva cercare di farsi piccolo piccolo e questo insegnava a i suoi frati, che – infatti – chiamò “minori”. Egli aveva ben chiaro che solo chi è davvero piccolo e umile può lasciarsi portare dalla Parola di Dio senza porre nessuna condizione, come un cucciolo che non ha paura di lasciarsi portare ovunque dalla propria madre.

Ecco perché nel vangelo di oggi Gesù annuncia che il Regno di Dio è simile a un granello di senape, «il più piccolo di tutti i semi» e cresce laddove c’è profonda umiltà e una docilità incondizionata al volere di Dio.

Dio può regnare senza impedimento in noi quando trova un cuore piccolo, povero e umile, che si abbandona serenamente alla Divina volontà e si lascia portare da essa docilmente, anche su strade diverse da quelle che avevamo immaginato.

«Dammi umiltà profonda, o Signore!», perché cresca in me il tuo Regno e siano frantumati gli idoli che albergano nel mio cuore. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Es 33,7-11; 34,5-9.28; Sal 102; Mt 13,36-43

 

 

Mosè pianta una tenda fuori dall’accampamento che chiama «tenda del convegno», dove si reca chiunque voglia «consultare il Signore». Quando entra nella tenda, scende una colonna di nube e il Signore parla con lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico».

Tutto ciò che leggiamo nel Primo Testamento è scritto in vista del Nuovo. È come un’ombra che anticipa la realtà. A partire dall’ombra si può intuire la realtà, ma la realtà è ben più grande della sua ombra! La tenda del convegno può sembrare qualcosa di grande ma è solo un’ombra della “vera tenda del convegno” che è Gesù. Si legge, infatti, nel Prologo di San Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1,14).

Questa tenda è prima di tutto la Santissima Eucaristia! Qui abbiamo ben più della tenda del convegno di Mosè perché c’è la presenza sostanziale del Verbo che si è fatto carne. Mentre la nube è solo un segno della presenza del Signore, l’Eucaristia è il Signore stesso! Certo, è una Presenza celata ai sensi del corpo, ma – come si legge nel Piccolo Principe – «l’essenziale è invisibile agli occhi» e per noi l’Essenziale è Gesù, che vediamo non con gli occhi del corpo ma con gli occhi della fede! Davanti al Santissimo Sacramento possiamo “vedere Dio” e parlare con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico».

Noi non abbiamo bisogno di Mosè come intermediario per consultare il Signore. Sappiamo che Gesù è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1 Tm 2,5) perché è vero Dio e vero uomo. Sappiamo, perciò, che se vogliamo trovare la tenda del convegno ci basta entrare in una chiesa, dove nel tabernacolo è custodita la Santissima Eucaristia,

Mi chiedo: quando sono dinanzi alla Santissima Eucaristia, sono consapevole che mi trovo dinanzi all’Altissimo e che i miei occhi contemplano Dio? In quei momenti posso dire di essere, per chi mi vede, un “testimone dell’Invisibile”?

Quando mostriamo a un amico con stupore un panorama stupendo, come se lo vedessimo la prima volta, quella persona sarà indotta a guardarlo con lo stesso incanto e la stessa meraviglia.

Il Santo Curato d’Ars stava in adorazione davanti a Gesù Eucaristico con tale fervore e raccoglimento da convincere i fedeli che vedesse Gesù in persona con i propri occhi. Quando vediamo qualcuno pregare con grande intensità, siamo indotti a fare altrettanto. Quando scorgiamo negli occhi di chi crede la luce dell’entusiasmo e dello stupore, come se “vedesse l’invisibile”, avvertiamo il desiderio di credere allo stesso modo!

Chiediamo al Signore un grande amore per la Santissima Eucaristica, attraverso la visita frequente al Santissimo Sacramento e la preghiera dell’adorazione eucaristica, perché la nostra testimonianza aiuti i fratelli a credere nella Presenza viva del Signore nel Sacramento del suo Amore.

Quando siamo assaliti da dubbi e preoccupazioni e quando avvertiamo il bisogno di una parola che ci illumini, ci guarisca e ci conforti, non dimentichiamo che non lontano da noi c’è la “tenda del convegno”, in cui Gesù ci attende per guarirci e risollevarci. Con gioia potremo esclamare: «Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato»! (Sal 34,5). Amen. 

don Francesco Pedrazzi

Es 34,29-35; Sal 98; Mt 13,44-46

Nella prima lettura di oggi si racconta che quando Mosè scende dal monte la pelle del suo viso è raggiante, poiché aveva conversato con il Signore. Egli non si rende conto di questo cambiamento di aspetto del suo volto, ma se ne accorgono gli Israeliti.

Quale insegnamento possiamo trarre da questo strano episodio?

Nel Salmo 36 si legge: «Guardate a Lui e sarete raggianti» (Sal 34,6). Quindi, quando rivolgiamo a Dio il nostro cuore, la nostra anima diviene “raggiante”. Che cosa significa “raggiante”?

Un volto è raggiante quando è gioioso. Si dice, infatti, di una persona che trasmette gioia e serenità che è una persona solare e luminosa. Viceversa, si parla di una persona cupa e ombrosa.

Quando conversiamo con Dio e ci intratteniamo con Lui faccia a faccia, ad esempio stando in adorazione dinanzi alla Santissima Eucaristia, lo Spirito Santo riversa nel nostro cuore la sua gioia e questa gioia traspare nel volto e nello sguardo, poiché – dice Gesù -, «l’occhio è la lampada del corpo» (cf. Lc 11,34).

L’uomo di cui parla il vangelo di oggi trova un «tesoro nascosto» ed è perciò «pieno di gioia»! Quando sostiamo davanti alla Santissima Eucaristia si rafforza in noi la certezza che Gesù è il nostro tesoro nascosto, il tesoro più grande della nostra vita, e perciò il cuore si riempie di gioia, perché sappiamo che nessuno può separarci dal suo amore. Ci convinciamo che potremmo anche perdere tutto il resto, ma non questo tesoro, purché lo consideriamo tale e lo amiamo sopra ogni cosa.

Pertanto, come recita il salmo della liturgia odierna, esaltiamo il Signore, nostro Dio, prostriamoci allo sgabello dei suoi piedi, poiché egli è santo! Solo Dio è degno di onore, gloria e benedizione nei secoli dei secoli!

Il volto cambia d’aspetto quando rimaniamo sotto il sole; facciamo sì che la nostra anima, illuminata dai raggi del Sole divino, divenga raggiante e luminosa. Amen.

don Francesco Pedrazzi

1 Gv 4,7-16; Sal 33; Lc 10,38-42

 

«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Queste parole di Gesù sono tanto preziose per la vita spirituale di ogni battezzato! A volte sono interpretate in modo superficiale come una contestazione della vita attiva a favore di quella contemplativa. Ma se fosse così non si capirebbe perché altrove Gesù esalti l’operosità di chi accoglie i fratelli e si prende cura di loro, che è quello che fa Marta nei suoi confronti (cf. Mt 25,40; Mc 9,41; Lc 9,48; Gv 13,20).

Il problema di Marta non è il suo operoso servizio, ma il fatto che sia svolto “con affanno e agitazione”, perché non procede dall’amore di Dio ma dall’amor proprio!

Ci affanniamo e ci agitiamo quando abbiamo l’impressione di perdere il controllo di una situazione. Allora siamo assaliti dall’ansia, dal turbamento e dall’ira, perché non sopportiamo l’idea che le cose vadano diversamente rispetto a quello che avevamo preventivato. L’affanno e l’agitazione scaturiscono quindi da noi stessi, dall’amor proprio e arrecano sofferenza a chi abbiamo accanto, al di là delle nostre buone intenzioni. Infatti, è paradossale ma Marta, pur essendo all’opera per accogliere Gesù, di fatto finisce con l’accusarlo, con il metterlo sul banco degli imputati. Gesù, cogliendo il turbamento nel suo cuore, la rimprovera dolcemente, invitandola a non dimenticare la parte migliore, scelta da Maria.

Per servire il Signore e i fratelli senza affanno e agitazione è necessario che non trascuriamo la vita contemplativa e che – sull’esempio di Maria -, ci mettiamo in ascolto, seduti ai piedi del Signore.

Si tratta di “preparare il cuore all’azione” – come si legge nella Prima Lettera di Pietro – facendo ogni cosa non per noi stessi, ma solo per Gesù (cf. 1Pt 1,13; ed ’74) e sapendo che Gesù ama chi serve nella gioia (Sal 100.2) e non nell’affanno.

Le ali di un uccello dominano la forza del vento, mentre una piuma isolata è in balìa anche di una brezza leggera. Così, il nostro cuore se non è ben ancorato in Cristo sarà continuamente agitato dal vento degli affanni e delle passioni.

Ogni giorno abbiamo dinanzi molte attività e opportunità di servizio, che possono però divenire causa di ansia e agitazione. Il rimedio consiste nel preparare la giornata alzandosi di buon mattino e dedicando un tempo congruo alla preghiera. Si legge, infatti, nel libro della Sapienza: «Chi si alza di buon mattino per cercare [la Sapienza] non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei è intelligenza perfetta, chi medita a causa sua sarà presto senza affanni» (cf. Sap 6,14-15).

Cristo è la nostra Sapienza, la Sorgente della vera carità, perché – come si legge nella Prima lettura – «l’amore è da Dio», ha la sua origine in Dio: non è qualcosa che produciamo con le nostre capacità umane, ma che attingiamo da Gesù, tenendo fisso lo sguardo del cuore su di Lui in ogni cosa che facciamo. Amare Cristo è “la cosa sola di cui c’è veramente bisogno, «l’unum necessarium», «la parte migliore» che non ci sarà tolta”. Amen. 

don Francesco Pedrazzi

Lv 23, 1, 4-11. 15-16. 27. 34-; Sal.80; Mt 13, 54-58

 

Il Signore, attraverso Mosè, istituisce alcune «solennità» in suo onore.

Sappiamo che uno dei comandamenti, il terzo, chiede di santificare il giorno del sabato (cf. Es 20,8). Nel catechismo cristiano il terzo comandamento recita: «Ricordati di santificare le feste».

Perché il Signore assegna tutta questa importanza alle feste in suo onore e chiede di santificarle?

Le feste sono un tempo di riposo e di cessazione dal lavoro. Il lavoro è una la via ordinaria di santificazione, che Gesù stesso ha esaltato scegliendo di lavorare come carpentiere per quasi tutta la sua vita. Infatti, nel vangelo di oggi è chiamato dai suoi compaesani «il figlio del falegname». Ma, senza la dovuta vigilanza, il lavoro, da via di santificazione, può divenire una delle forme più infime e deleterie di idolatria. 

Il lavoro diventa un idolo quando l’uomo non lavora per vivere, ma vive per lavorare. Così facendo sacrifica sull’altare di questo idolo l’amore per Dio e per i fratelli.

Il comandamento della festa è un rimedio all’idolatria del lavoro perché ci chiede di fermarci per ricordare che il lavoro non è un fine, ma un mezzo per servire il Signore e il prossimo.

Nel tempo di festa interrompiamo il lavoro per passare dall’azione alla contemplazione. Contemplare significa fermarsi e considerare il valore della vita, ciò che stiamo facendo, il suo senso ultimo. È il tempo in cui ricordiamo che le persone vengono prima delle cose e delle attività e che Dio viene prima di ogni altra cosa o persona, perché è Colui da cui riceviamo forza, energia e vita (cf. Sir 38,8; At 17,28; 1Cor 11,12b; Ef 4,16).

Celebrare una festa in onore del Signore vuol dire riconoscere che ogni cosa buona viene da Lui ed è perciò giusto rendergli grazie con tutto il cuore. In tal modo, il nostro lavoro potrà essere benedetto da Dio e lo potremo vivere con spirito di carità e di servizio, non con spirito di dominio, di rivalità e di orgoglio.

Vengono in mente le parole di ammonimento della Santa Vergine ai parrocchiani di La Salette. La Madre celeste li rimprovera perché disertano la Messa domenicale a causa del lavoro nei campi, dimenticando così che Dio ha dato sei giorni per lavorare e si è riservato il settimo. Perciò annuncia che se i fedeli sarebbero tornati a santificare la domenica i raccolti sarebbero stati abbondanti, viceversa sarebbero stati scarsi e “guasti”.

In diversi passi della Scrittura si legge che il Signore è uno “scudo” per i “giusti” che camminano con rettitudine e osservano la sua legge (cf. Pro 2,7; Sap 5,15-16; Sal 7,11; 86,2; 119,114.153). I dieci comandamenti sono una barriera contro il male! Come un cucciolo si mette in pericolo quando si allontana dalla madre, perché si sottrae alla sua protezione, così l’uomo che si allontana dai comandamenti si sottrae alla protezione del Signore e si espone all’azione distruttrice di satana.

Nelle domeniche e nelle altre solennità in onore del Signore anteponiamo la celebrazione eucaristica e la preghiera ad ogni altra attività! In questo modo riconosciamo nei fatti, e non solo a parole, che abbiamo un solo Dio e Signore: a Lui solo si deve l’onore e la gloria, nei secoli dei secoli. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Lv 25,8-17; Sal 66; Mt 14,1-12

San Giovanni Battista viene imprigionato perché aveva detto a Erode che non era lecito convivere con la moglie di suo fratello Filippo. Viene poi decapitato perché il re non vuole venir meno al giuramento fatto a sua figlia.

Due sono i gravi peccati di Erode. Il primo è l’adulterio, contro il sesto comandamento del decalogo. Il secondo è l’omicidio, contro il quinto. Entrambi hanno la stessa radice, l’idolatria, che è la trasgressione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me».

Erode, pur conoscendo la legge di Dio e nonostante il rimprovero di Giovanni, continua a vivere nel peccato. Egli sapeva in coscienza che il Battista era un giusto, ma preferisce metterlo a morte e trasgredire il comandamento di Dio piuttosto che trasgredire il giuramento umano.

È proprio degli idolatri compiacere gli uomini per i propri interessi, anche a costo di calpestare i comandamenti di Dio. Il cristiano, come scrive san Paolo (cf. 1Tm 3,7; Rm 12,18), deve fare di tutto per essere stimato dagli uomini e vivere in pace con tutti, ma non scende a compromessi con la verità e con la legge di Dio, e vive nel santo timore di Dio e non si conforma alla mentalità del mondo! (cf. Rm 12,2). Il timore di Dio consiste nella volontà ferma di essergli fedele e di non offenderlo mai deliberatamente, anche a costo di perdere per questo la propria vita.

La prima lettura si conclude con le seguenti parole: «Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio». Le due cose sono inversamente proporzionali, come lo sono la luce e il buio. Tanto più cresce la luce tanto più diminuisce il buio. Similmente, tanto più diveniamo timorati di Dio, tanto meno opprimeremo i fratelli. Laddove c’è il timore di Dio c’è anche l’amore per i fratelli.

Ecco una preghiera bellissima preghiera di Sant’Ignazio di Loyola, particolarmente adatta per combattere ogni forma di idolatria e per crescere nel santo timore di Dio:

«Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono; tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà: dammi solo il tuo amore e la tua grazia; e questo mi basta». Amen!

don Francesco Pedrazzi

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35

«Io sono il pane della vita»,

dice Gesù nel vangelo di questa domenica.

È una delle clamorose autodefinizioni che Gesù fa di se stesso nel Vangelo di Giovanni. Altrove dice: «Io sono il buon pastore», «Io sono la vite e voi i tralci», «Io sono la via, la verità e la vita»… Nessun uomo ha mai parlato in questo modo! Gesù si presenta come una persona da cui dipende la vita di tutti gli altri uomini. Dinanzi a una pretesa così esagerata – come diceva Staple Lewis, non possiamo banalmente parlare di un “grande uomo”; abbiamo solo due possibilità: o ritenere che fosse un folle o cadere in adorazione ai suoi piedi!

Cerchiamo di comprendere il senso di questa affermazione di Gesù alla luce del dialogo tra Gesù e la folla.

Nel versetto precedente Gesù dice: «È il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti, il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Quindi Gesù è il pane della vita perché è il pane del Cielo, che viene dal Cielo, perché donato da Dio Padre e disceso dal Cielo per donare la vita al mondo.

Riflettiamo sull’espressione “pane della vita”.

Il termine “pane” va inteso qui in senso generale per indicare il sostentamento materiale dell’uomo, come quando nel Padre nostro diciamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»L’uomo non può vivere senza pane, cioè senza mangiare. Ha bisogno di nutrirsi di un cibo che Gesù chiama «il cibo che non dura», il cibo che perisce.

Ed ecco il passaggio chiave del racconto. Gesù dice a coloro che lo cercavano perché avevano mangiato a sbafo grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà».

Lo scopo ultimo della moltiplicazione dei pani e dei pesci non è quindi quello di sfamare la folla. Non è la risposta a un bisogno materiale. Gesù, attraverso il miracolo, compie un segno, cioè manifesta qualcosa di se stesso, della sua identità. Intende rivelare che egli è il “Pane della vita”: venuto per donare agli uomini un cibo che non perisce, che rimane per sempre; un cibo “soprannaturale” che risponde, quindi, a un altro genere di fame, a una fame più profonda che non riguarda lo stomaco ma l’anima.

Egli stesso è questo “Pane della vita” e chi si nutre di Lui “non avrà più fame e chi crede in Lui non avrà più sete!”. È chiaro che qui si parla di una fame e di una sete spirituale, da contrapporre a una fame terrena e materiale.

Il concetto di fame e di sete va qui inteso in senso ampio: non riguarda solo il cibo. Nel libro del Qoelet si legge: «Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire» (Qo 1,7-8). C’è ad esempio una fame e una sete di conoscenza, una fame di esperienze, una fame di amore… Si tratta di bisogni che riguardano la sfera materiale, che ci accomunano con gli animali: anche un animale ha fame di affetto!

A questo punto ecco un interrogativo cruciale: è sufficiente per l’uomo saziare la fame materiale, oppure – per essere felice – ha bisogno di soddisfare anche la fame spirituale?

Sant’Agostino, che in un primo tempo pensava di poter trovare pienezza di senso cercando si limitandosi a saziare la sua fame terrena di conoscenza e di affetto, dopo la conversione esclama: «Ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te!» (Confessioni I,1,1).

L’inquietudine, secondo Agostino, deriva dal fatto che questa fame mondana non può essere mai saziata una volta per sempre. C’è sempre qualcosa che ci manca. La fame o la sete ha a che fare con il desiderio di un qualcosa che ci manca. Se abbiamo un problema di salute, ci manca la condizione del pieno benessere fisico e siamo inquieti a causa della salute perduta. Se litighiamo con una persona che ci è cara, siamo inquieti, perché ci manca la comunione con quella persona…

Uno potrebbe dire: è impossibile superare questa inquietudine finché siamo in questa vita. Eppure, Gesù parla di una fame e di una sete che possono essere pienamente appagate. A cosa si riferisce?

Si riferisce al dono dello Spirito Santo che mette nel nostro cuore la certezza di avere un Dio in Cielo che è Padre! Infatti, nel vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Chi ha sete venga a me e beva!…” Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui…» (cf. Gv 7,38-39).

Al di là dei bisogni terreni che non trovano mai una piena soddisfazione, il cuore umano può trovare un appagamento profondo quando scopre di non essere al mondo per caso: che la vita è il frutto di un progetto di amore, di un Dio che ha creato i mari e le montagne, l’alba e il tramonto… un Dio che è Padre e che si prende cura dei suoi figli, come si prende cura dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo.

Tutto cambia quando nel cuore matura questa certezza, perché anche i bisogni materiali vengono relativizzati. Infatti, Gesù arriva a dire: «Non siate in ansia per che cosa mangerete e berrete… di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta» (Lc 12,29-31).
Cercare il regno di Dio vuol dire operare nel mondo, ma senza affanno, senza ansia, sapendo che per quanto ci diamo da fare non possiamo aggiungere un’ora sola alla nostra vita! (cf. Mt 6,27).

Sant’Ignazio di Loyola, di cui ieri ricorreva la memoria, diceva: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».
Quanto sono liberanti queste parole, che ci fanno capire che cosa significa cercare prima di tutto il regno di Dio! Da un lato siamo chiamati a un impegno operoso nel mondo, dall’altro – grazie alla fede in Dio Padre – accettiamo nella pace una realtà che è sempre limitata, in cui manca sempre qualcosa, in cui ci scopriamo deboli… Ma proprio nella debolezza possiamo sperimentare la forza dell’Amore di Dio.

La vita della Venerabile Marta Robin (1902-1981) fu una testimonianza formidabile del vangelo di questa domenica. Visse più di cinquant’anni inferma, in una stanza semibuia (perché non sopportava la luce), senza mangiare né bere. Poteva nutrirsi solo della Santissima Eucaristia! Fu visitata da illustri medici e rimase un enigma per gli uomini di scienza. Con la sua vita, il Signore ha voluto ricordare che c’è «non di solo pane vive l’uomo». L’uomo vive dell’Amore di Dio, che ha la sua prima sorgente nell’Eucaristia, che è Gesù Pane di Vita e Pane del Cielo.

Ecco le sue parole, le parole di un’anima che, pur essendo duramente provata dalla vita, ringrazia Dio senza sosta per il suo amore e la sua bontà, grazie all’Eucaristia, il sacramento dell’Amore:

«Alleluia, Alleluia! … Navigo nell’azione di grazie! Sofferenze, timori, la stessa debolezza, l’impotenza di fare qualcosa… tutto diviene facile da sopportare, poiché ho l’immensa gioia di ricevere la Santa Comunione, vicino alla Cara mamma [celeste]» (2 maggio 1927). Amen.

don Francesco Pedrazzi

Nm11,4b-15; Sal 80; Mt 14,13-21

 

Gli Israeliti nel deserto sono nauseati dalla manna. Ciò che in un primo tempo era stato accolto con entusiasmo come uno dono del Cielo, alla lunga è causa di malcontento e mormorazione. Essi dicono a Mosè: «Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna!».

Il viaggio di Israele nel deserto è una grande metafora del pellegrinaggio terreno del popolo di Dio e di ogni credente. Può arrivare per tutti il tempo in cui siamo tentati di lamentarci con il Signore perché la vita sembra donare meno di ciò che sembrava promettere. Gli Israeliti avevano dapprima mormorato contro Mosè e contro Dio perché temevano di morire di fame e il Signore aveva inviato la manna. Ora si lamentano perché vogliono mangiare carne e il Signore invierà le quaglie.

Il problema di Israele è un problema di “fede”: non crede fino in fondo che il Signore possa provvedere al popolo che ha liberatoNon crede nel nome che Egli ha rivelato a Mosè: «Io sono Colui che sono», cioè «Io sono colui che sarà sempre in mezzo al suo popolo», che non lo abbandonerà mai.

Gesù dice nel vangelo di oggi ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare!». Per compiere la moltiplicazione dei pani e dei pesci ha bisogno del loro contributo.

Ecco un modo alternativo di reagire, rispetto alla mormorazione, quando si attraversa un tempo di prova: essere disponibili per divenire strumenti della Divina Provvidenza. Come un pittore ha bisogno di un pennello per produrre la sua opera d’arte, così il Signore ha bisogno di noi per compiere la sua opera provvidenziale nel mondo.

La Parola di oggi ci ricorda che dovremmo imparare a rispettare i tempi e i modi con cui Dio opera nella nostra storia, senza lamentarci perché le cose non vanno al presente secondo le nostre aspettative. Inoltre, siamo chiamati a credere che Gesù ha bisogno di noi per rinnovare i prodigi della sua misericordia laddove viviamo ogni giorno. Non siamo solo beneficiari della Divina Provvidenza ma anche suoi strumenti!

Posso pregare dicendo: «Signore, so che mai mi abbandonerai in questo cammino nel deserto verso la Terra Promessa! Allontana da me la mormorazione e rendimi strumento nelle tue mani provvidenti per i fratelli che metti sul mio cammino. Amen.

don Francesco Pedrazzi

Nm 12, 1-13; Sal.50; Mt 15,1-2.10-14

 

La prima lettura di oggi ci presenta una contestazione dell’autorità di Mosè da parte dei due fratelli Maria e Aronne.

Si legge: «[Maria e Aronne] dissero: “Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?”. Il Signore udì. Ora Mosè era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra. Il Signore disse a un tratto a Mosè, ad Aronne e a Maria: “…Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?”. L’ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò; la nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa, bianca come la neve. Aronne si volse verso Maria ed ecco: era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: “Ti prego, mio signore, non addossarci il peccato che abbiamo stoltamente commesso! Ella non sia come il bambino nato morto, la cui carne è già mezzo consumata quando esce dal seno della madre”. Mosè gridò al Signore dicendo: “Dio, ti prego, guariscila!”».

Questo episodio ci fa capire quanto sia in abominio a Dio la critica delle autorità che egli ha costituito. Va precisato che non ogni critica all’autorità è un peccato contro Dio. Se essa è espressa nella forma di un consiglio o di un’umile esortazione può essere anche un contributo prezioso nell’esercizio dell’autorità. Ad esempio, Ietro, suocero di Mosè, gli aveva mosso una critica costruttiva sul modo con cui esercitava l’autorità sul popolo e gli aveva suggerito di condividerla con altre persone che potessero aiutarlo. Mosè accettò il consiglio, che era perciò conforme al volere divino.

Ma la critica di Maria e Aronne è radicale: parte da un pretesto banale, il fatto che Mosè aveva sposato una donna etiope, per contestare il fatto stesso che Dio parlasse attraverso di lui!

La lebbra che colpisce Maria in questo caso simboleggia il carattere mortale e contagioso di questo peccato, perché la contestazione dell’autorità si diffonde all’interno della comunità, creando inevitabilmente diffidenza, conflitti e divisioni.

La pianta di rosa viene coltivata presso i vigneti perché presenta in maniera prematura, rispetto alla vite, molti dei sintomi capaci di danneggiare il raccolto, a causa dei parassiti. Similmente, quando in una comunità di credenti viene contestata in modo radicale l’autorità, è un segnale che il nemico vuole aggredire e distruggere l’intera comunità. Bisogna, perciò, opporsi fermamente a queste critiche, per salvare il corpo ecclesiale!

Nel vangelo si racconta che portarono a Gesù «tutti i malati e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccarono furono guariti».

Tocchiamo anche noi il Cuore di Gesù con una supplica umile e accorata per tutte le volte in cui abbiamo provocato l’ira del Signore contestando i pastori che egli ha costituito, perché ci guarisca dalla lebbra che c’è nelle nostre anime.

Preghiamo con il Salmo odierno: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo!». Amen.

don Francesco Pedrazzi

LEGGI L'ARTICOLO: "L'abuso della Comunione spirituale"

Quando non è opportuno "in coscienza" astenersi dal Sacramento dell'Eucaristia e limitarsi a fare la Comunione spirituale?

COMMENTO ALLA PAROLA DEL GIORNO
2020 ANNO A
Don Francesco Pedrazzi

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“Essere pronti a incontrare il Signore”. Domenica. XXXII settimana del Tempo Ordinario.

“Quanto meditiamo sulla morte e sul senso della nostra vita?”. Commemorazione dei fedeli defunti. XXXI settimana del Tempo Ordinario.

“L’Eucaristia è la sorgente dell’Amore”. Domenica. XXX settimana del Tempo Ordinario.

“Diamo a Dio la nostra anima su cui è incisa la sua immagine!”. Domenica. XXIX settimana del Tempo Ordinario.

“Davvero abbiamo accolto l’invito di Dio a entrare nella sua gioia?”. Domenica. XXVIII settimana del Tempo Ordinario.

“Quali frutti produce la nostra vita?”. Domenica. XXVII settimana del Tempo Ordinario.

“Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta!”. Domenica. XXVI settimana del Tempo Ordinario.

“La giustizia di Dio non è la giustizia degli uomini”. Domenica. XXV settimana del Tempo Ordinario.

“Perdonare sempre è amare come Gesù”. Domenica. XXIV settimana del Tempo Ordinario.

“Amare il prossimo aiutandolo a riconoscere i propri errori”. Domenica. XXIII settimana del Tempo Ordinario.

“Il sacrificio gradito a Dio”. Domenica. XXII settimana del Tempo Ordinario.

“Le potenze degli inferi non prevarranno sulla Chiesa!”. Domenica. XXI settimana del Tempo Ordinario.

“Donna, davvero grande è la tua fede!”. Domenica. XX settimana del Tempo Ordinario.

“Da mio Figlio e dagli angeli fui portata in cielo”. (Maria Santissima a Bruno Cornacchiola, 1947). Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria. Sabato. XIX settimana del Tempo Ordinario.

“‘Signore, salvami!’. Imparare a vivere ogni giorno con la mano nella mano di Gesù”. Domenica. XIX settimana del Tempo Ordinario

“Voi stessi date loro da mangiare!”. Domenica. XVIII settimana del Tempo Ordinario

“Tollerare la zizzania o pretendere di creare una Chiesa dei puri?”. Domenica. XVI settimana del Tempo Ordinario

“La parabola del Seminatore”. Domenica. XV settimana del Tempo Ordinario

“Solo in Dio il nostro cuore si riposa”. Domenica. XIV settimana del Tempo Ordinario

“Dio è Amore!”. Domenica. XIII settimana del Tempo Ordinario

“Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!”. Domenica. XII settimana del Tempo Ordinario

“Mio Dio, mio tutto!” (san Francesco d’Assisi). Lunedì. X settimana del Tempo Ordinario

“Siate forti!…non possono uccidere la vostra anima!”. Venerdì. IX settimana del Tempo Ordinario

“Generati da Dio nel Cuore Immacolato della Madre della Chiesa”. Lunedì. IX settimana del Tempo Ordinario

“Amare Maria per diffondere la Gioia dello Spirito Santo”. Sabato. VII settimana di Pasqua

“Paolo VI, il santo apostolo del Concilio Vaticano II”. Venerdì. VII settimana di Pasqua

“Vinculum Amoris”. Giovedì. VII settimana di Pasqua

“Verranno fra voi lupi rapaci”. Mercoledì. VII settimana di Pasqua

“Scrupoli e malinconia, fuori da casa mia!”. Martedì. VII settimana di Pasqua

“Pregare nel nome di Gesù”. Sabato. VI settimana di Pasqua

“L’opera dello Spirito Santo in noi”. Lunedì. VI settimana di Pasqua

Il combattimento che impedisce di cadere”. Sabato. V settimana di Pasqua

“Non voi avete scelto Me, ma Io ho scelto voi”. Giovedì. V settimana di Pasqua

“’Rimanete in Me’. Non perdiamo la bussola!”. Festa della Madonna di Fatima. Mercoledì. V settimana di Pasqua

“Il mio Cuore Immacolato sarà il tuo rifugio“. Martedì. V settimana di Pasqua

“Se uno mi ama…”. Lunedì. V settimana di Pasqua

“La sublimità della conoscenza di Cristo”. Sabato. IV settimana di Pasqua

“Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”.  Giovedì. IV settimana di Pasqua

“Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando…”.  Mercoledì. IV settimana di Pasqua

“Il ‘segreto di Fatima’, il potere dell’Anticristo e l’esortazione a restare fedeli al Signore”.  Martedì. IV settimana di Pasqua

“Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”.  Lunedì. IV settimana di Pasqua

Memoria di S. Giuseppe lavoratore: “Lo splendore della normalità”. Venerdì. III settimana di Pasqua

“La bellezza che salva il mondo”. Venerdì. III settimana di Pasqua

Festa di Santa Caterina da Siena – “Santa Caterina: il coraggio che nasce dall’umiltà”

“Padre, dacci oggi Gesù, nostro Pane di vita!” – Mercoledì. III settimana di Pasqua

“Uno sguardo da Risorti” – Martedì. III settimana di Pasqua 

“Religione del ventre o fede in Gesù Cristo?” – Lunedì. III settimana di Pasqua

“Perfetta Letizia” – Venerdì. II settimana di Pasqua

“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” – Giovedì. II settimana di Pasqua

“Tutto verrà alla luce” – Mercoledì. II settimana di Pasqua

“Conquistati dalla bellezza del Crocifisso Risorto”  – Martedì. II settimana di Pasqua

“Rinascere dall’alto… e diventare come bambini” – Lunedì. II settimana di Pasqua

Domenica della Divina Misericordia: “Io sono la Misericordia stessa” –  II domenica di Pasqua

“È il Signore” – Venerdì. Ottava di Pasqua

“Il Vangelo è chiaro: non c’è misericordia e salvezza dall’inferno senza il pentimento dei peccati” – Giovedì. Ottava di Pasqua

“Le quattro colonne della vita cristiana” – Mercoledì. Ottava di Pasqua

“Perché piangi?” – Martedì. Ottava di Pasqua

“Gioia piena alla tua presenza” – Lunedì dell’Angelo. Ottava di Pasqua

Domenica di Pasqua: “Il cristianesimo è Cristo risorto (non un insieme di valori)”

“Il Sacramento dell’Amore” – Settimana Santa – Giovedì

“Perché Giuda ha tradito Gesù?” – Settimana Santa – Mercoled

Ed era notte”. Martedì. Settimana Santa

“Diffondere ovunque il profumo dell’Amore”. Lunedì. Settimana Santa

“Invoco il Signore e sarò salvato dai miei nemici”. Martedì. V settimana di Quaresima

Andrò a vederla un dì”. Mercoledì. V settimana di Quaresima

“Stat Crux dum volvitur orbis”. Martedì. V settimana di Quaresima 

“Ripartire ogni volta dal perdono di Dio”. Lunedì. V settimana di Quaresima 

“Non muoio: entro nella vita!”. Domenica. V settimana di Quaresima

“Le tenebre non prevarranno”. Sabato. IV settimana di Quaresima 

“La migliore correzione fraterna è la santità di vita”. Venerdì. IV settimana di Quaresima 

“L’idolatria che soffoca l’amore”. Giovedì. IV settimana di Quaresima

Solennità dell’Annunciazione: “Il nostro fiat nel fiat di Maria”

“Guariti da un Cuore ferito”. Martedì. IV settimana di Quaresima 

“Donaci Signore, occhi per riconoscere i segni della tua presenza”. Lunedì. IV settimana di Quaresima 

“Il Signore è mia luce, di chi avrò paura?”. Domenica Laetare. IV settimana di Quaresima 

“Solo l’amore conta davanti a Dio”. Sabato. III settimana di Quaresima 

“Se il mio popolo mi ascoltasse!”. Venerdì. III settimana di Quaresima

Solennità di S. Giuseppe: “Chiediamo a S. Giuseppe di allontanare la peste che ammorba il mondo” . III settimana di Quaresima

“Che cosa scegliamo: la benedizione o la maledizione?”. Mercoledì. III settimana di Quaresima

“Il cuore contrito non teme la sventura”. Martedì. III settimana di Quaresima 

“Pretesa o abbandono fiducioso?”. Lunedì. III settimana di Quaresima 

“Sete di Dio, sete di creature”. Domenica. III settimana di Quaresima 

Provvidenziale carestia”. Sabato. II settimana di Quaresima